“Ciò che è
nuovo è indimenticabile” (Gilles
Deleuze)
Ci
siamo proposti, per questo primo anno di un quadriennio
di Biennale Cinema (per questa 65. Mostra), di smettere,
una volta per tutte, di guardare al cinema come a una
bussola infallibile. Non volevamo più chiedere
al cinema di salvarci da un presente problematico, ambivalente,
ambiguo: toccava a noi, invece, starci dentro, non saltare
i nuovi problemi (artistici e oltre) che pone l’epoca
in cui ci è dato vivere. Un’epoca contraddistinta
da una profusione sempre rinnovata d’immagini.
Senza che, in fondo, ci sia poi più tanto da
vedere.
Se
il cinema non è (quasi) più il cinema,
questo può rivelare anche aspetti la cui positività
non sia immediatamente percepibile. Il cinema è
diventato un insieme di idee, di forze, di proprietà,
di capacità, di miti, di storie. E, soprattutto,
si è trasformato in un nuovo modo del pensiero,
originale e potente. Così che, per fortuna, quando
ci si mette a inseguire quello che, al cinema, è
venuto dopo il moderno, non si è mai al riparo
dal pericolo del contagio, dal rischio dell’ibridazione.
Per
più di un secolo il cinema è stato il
mezzo espressivo più fecondo, attuale, pieno
d’invenzione; uno tra i segmenti costitutivi della
modernità (mai: pezzo di ricambio, sostituibile,
intercambiabile). La parte del cinema moderno che abbiamo
vissuto come necessaria, quasi definitiva, ha avuto
una bella progenitura. La quale, a sua volta, ha avuto
la pretesa di durare, di non scomparire beneducatamente
una volta passato il proprio momento (come invece hanno
fatto tanti movimenti delle arti visive, dell’architettura,
della letteratura); ha preteso, invece, di essere addirittura,
del cinema, la lezione assoluta, la profondità,
l’essenza. Ma l’idea di un cinema moderno
che duri più di un mezzo secolo è un vero
ossimoro.
Finché
è durata, la modernità storica del cinema
ha assunto al suo interno tutto quello che era contemporaneo,
così che il contemporaneo ha finito per aspirare
a poter combaciare con un ideale di “moderno”.
Ora che la modernità è pronta per trovare
il suo posto nelle genealogie e nelle periodizzazioni,
la nozione stessa di “cinema moderno” ci
scoraggia - tanto l’abbiamo spremuta, triturata
per tirar fuori quello che ancora ci poteva dare di
utile. E le nuove classificazioni? Cinema “contemporaneo”:
e di cosa? Il termine, comunque, non designa nulla di
stabile o già solido.
Il
cinema è anche divertimento, ed è senz’altro
industria che organizza il divertimento (il vecchio
aforisma di Malraux rimane ancora valido: il cinema,
la prima arte inventata ex-novo, è comunque industria).
Tuttavia, non è più lo spettacolo di massa
dagli effetti incantatori, in grado di rinnovare di
continuo la propria mitologia e, più di rado,
le proprie opere di riferimento. Molti dei film che
si producono, infatti, stancano invece di divertire,
promettono allo spettatore lo sfruttamento massimo di
tecniche estetiche (effetti: di sceneggiatura, recitazione,
regia, macchinario visivo), ma lo lasciano poi frustrato,
affamato di quell’immaginario e di quelle illusioni
che il cinema ha, in altre epoche, saputo garantirgli,
e di cui gli fornisce invece ora simulacri congelati
(qualcuno ha forse lasciato l’aria condizionata
accesa, e troppo alta…).
Chi
ci porterà allora verso nuove (altre) distese,
inverosimili continenti?
Non
sono certo inedite o sorprendenti, ma almeno due indicazioni
il programma della 65. Mostra le può indicare.
(a)
Se si va oltre la riflessività, la negatività,
la storicità, alcune risposte alla fine della
modernità e a quella dei “grandi racconti”
le si possono forse trovare riposte nei mondi (a Sud,
a Oriente) dove la “modernità necessaria”
non è mai arrivata per davvero.
(b)
Anche nei mondi a noi più vicini (a Occidente,
al Nord), non è scomparsa la passione del nuovo:
non certo la novità a fini pubblicitari, bensì
l’invenzione, quella firmata, che ha un autore
e non scomparirà dunque con il dissolversi dell’ennesima
“nuova” moda. Un autore di quelli che possono
ancora offrirsi il lusso di essere intempestivi –
credono nel nuovo ma hanno la consapevolezza che il
futuro è un’arte della trasmissione (e,
a volte, della tradizione).
I
punti di arrivo (provvisori) del nostro lavoro sono
questi.
Abbiamo
riconfermato l’avvenuta inutilità della
consacrazione dell’Arte (cavallo di battaglia
della Mostra sin dalla fine degli anni Trenta) e della
Geografia (l’inutile ecumenismo di una Mostra
“atlante delle nazioni e del pianeta”).
Si tratta, invece, di usare ora la conoscenza del cammino
percorso negli anni precedenti per fornire nuove piste,
contribuire a rinnovare i sistemi di mappatura.
Per
realizzare una 65. edizione pluralistica, e dunque volutamente
contraddittoria, non potevamo che privilegiare, come
collante che tenesse insieme le opere, l’intuizione
delle verità che in esse si celavano.
Purezza,
omogeneità, assolutezza ci sono apparse impraticabili
(perchè improduttive), abbiamo dunque perseguito
l’autenticità attraverso il suo contrario.
La
qualità ha contato, ma ancor più la non-identità
dei fenomeni espressivi: la libertà narrativa;
lo splendore delle forme; il piacere schermico; la sfida
al “comune senso del reale” - la continua
messa in discussione dell’idea di fiction (o di
non-fiction…) e dei limiti del punto di vista
consentito allo spettatore.
Mischiare
le carte ha voluto dire: prendere rischi inattesi, provare
soluzioni non sperimentate; ricapitolare le fasi recenti
del “nuovo” al cinema per rivalutarle, risituarle
nei territori a cui appartengono (ma senza pertanto
proteggersi le spalle con l’ideologia).
Grazie
all’articolazione di proposizioni e opzioni, modelli
e schemi – anche di genere (non rinunciamo agli
appuntamenti di mezzanotte) – ha ripreso forza
la possibilità di rivolgerci a gruppi diversissimi
di spettatori, particolarmente disponibili a esplorare,
riflettere, godere delle diverse traiettorie del programma.
Ad essi dobbiamo anche quest’anno fare delle domande
piuttosto che fornire delle risposte.
Come
risultato di queste scelte di programmazione, ci piace
immaginare la “Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica” come luogo di più ricche
individualità, che si possano formare non per
assimilazione ma per comprensione, attraverso lo sguardo
attivo e il confronto. L’avvenire della Mostra,
all’ombra del nascente nuovo complesso di sale,
ne ha senz’altro bisogno.