Aleksey
German Jr. ha sempre respirato aria di cinema e di arte in
famiglia (è figlio del regista Aleksej German e nipote
dello scrittore Yuri German) e nutre una passione smisurata
per le ricostruzioni d'epoca.
Come nei suoi precedenti film (in Garpastum
del 2005 una improvvisata squadra di calcio nella San Pietroburgo
di inizio secolo, in Posledniy poezd
del 2003 un manipolo di soldati russi e tedeschi abbandonati
a se stessi durante la seconda guerra mondiale) anche in Bumaznyj
soldat racconta la storia di un gruppo, la prima compagnia
di cosmonauti. E lo fa attraverso gli occhi di Daniel, l'ufficiale
medico incaricato di occuparsi della loro salute in vista
del lancio del primo uomo nello spazio. Siamo nel 1961 in
Kazakistan, durante il momento di crescita dell'URSS che tenta
di lasciarsi alle spalle l'eredità di Stalin con il
miraggio di sopperire ad una crisi di ideali tramite la grandiosità
di un avvenimento memorabile. Ma anche dietro questo obiettivo
grandioso e romantico si cela un destino di morte. Daniel
ne è consapevole e non riesce a portare fino in fondo
la sua missione diviso tra l'inaccettabilità del sacrifico
umano in nome della patria e il precario equilibrio sentimentale
con la moglie Nina e l'amante Vera. Perderà la vita
il giorno prima del lancio che segnerà un momento indimenticabile
nella storia russa.
Pur impeccabile e sontuosamente evocativa, la ricostruzione
storica di Aleksey German Jr si rivela stridente perché
pone in primo piano la figura centrale di Daniel, roso da
frustrazioni esistenziali e rimorsi etici, lasciando sullo
sfondo il contesto storico del suo Paese (perfino il lancio
del missile si vede solo in lontananza). Affastella insulse
diatribe tra marito, moglie e amante privilegiando il singolo
punto di vista a quello corale. Anche la squadra di cosmonauti
si suddivide in singole performance emotive disperdendo la
tensione dell'attesa dell'evento in mille impercettibili piani
dimensionali che eludono la compattezza narrativa conferendo
un senso se non confusionale di sicuro distorto della realtà.
Sfugge il dramma della missione e resta la gravosità
di un'inadeguatezza esistenziale che si risolve in una tragedia
personale. La forza dello sguardo non è mai centrifuga
e rimane quasi sempre avulsa dal contesto storico cui si vuole
rendere omaggio. Non c'è coesione tra i due piani (individuale
e corale) e si finisce per restare delusi da quella che sulla
carta era la parte più interessante (il lancio dell'uomo
nello spazio).
[marco catola]