Tratto
da un manga giapponese creato nel 1977 da Tsuchiya Garon
e disegnato da Minegishi Nobuaki (in Italia da ottobre
edito da Coconino Press), Old
Boy (Gran premio della Giuria a Cannes nel 2004)
rappresenta il secondo capitolo della trilogia sulla
vendetta di Park Chan-Wook dopo Sympathy
for Mr Vengeance (2002) ed in attesa del capitolo
conclusivo Sympathy
for Lady Vengeance (2005).
Un tema assai di moda nel cinema contemporaneo, vedi
il recente Kill Bill di Tarantino, ma trattato in maniera
meno fumettistica, sebbene derivi da esso, ed assolutistica.
Manca la dicotomica divisione tra Bene e Male assoluto;
scopriremo lentamente quanto inesorabilmente che quell’uomo
imprigionato una notte uggiosa senza apparente motivo
e rilasciato altrettanto inspiegabilmente dopo 15 anni
non è così innocente come crede/crediamo.
E la vendetta che cova rabbiosa durante la prigionia
non è altro che l’inconsapevole realizzazione
di un’altra vendetta ancor più grande,
ancor più terribile. Il racconto procede lentamente
attraverso un accumulo di indizi che lo spettatore apprende
insieme al protagonista, vivendo il suo stesso spaesamento
e confusione tra piano di realtà (cosa è
effettivamente successo) e finzione (cosa è frutto
del complotto, chi è attore e chi vittima del
diabolico piano di vendetta).
La vendetta genere vendetta come un ignobile circolo
vizioso; la vendetta è generata dal passato,
dall’impossibilità di superarlo, dall’incapacità
dell'uomo di perdonare. Ma nello stesso tempo la vendetta
è un sentimento che ti corrompe e ti condanna
alla dannazione. Non vi è sollievo dal suo compimento,
ma solo un senso totale di vuoto e inutilità.
Park Chan-Wook costruisce un dramma con accenti epici
e melodrammatici su uno dei sentimenti che fa girare
il mondo e guida le azioni degli uomini ma con nessuna
compiacenza verso la violenza, di cui il film è
pregno, e nessuna simpatia ed accondiscendenza nei confronti
dei suoi personaggi. Un film che si distacca fortemente
dalla sua fonte fumettistica fatta eccezione per il
taglio delle inquadrature che denota una messinscena
volutamente bidimensionale (vedi il piano sequenza del
combattimento nel corridoio della prigione).
“Sebbene sia peggio di una bestia, non ho anche
io il diritto di vivere?” Questo è il tormento
che coglie in momenti diversi i vari protagonisti e
che questi rivolgono a noi, spettatori giudicanti della
vicenda, ed alla nostra coscienza. Tragedia epica, dramma
morale, venato di una sottile ironia ed una buona dose
di violenza per un film apprezzato da Tarantino (nella
Giuria di Cannes che lo premiò) e che non mancherà
di avere i suoi accaniti estimatori nel nostro paese.
[fabio melandri]