Cinema
e società: la redenzione come espressione del dolore
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Park
Chan Wook, Quentin Tarantino e altre vendette |
[alessandro
antonelli] |
Secondo
una spiegazione comportamentale la vendetta può
essere definita come un’alterazione psicofisica,
la manifestazione di corpo e spirito verso la configurazione
di un obiettivo, una persona o un gruppo di persone.
Una presa di coscienza definitiva con la conseguente
attuazione di un istinto verso un progetto, più
o meno razionale, al fine di tornare all’equilibrio
di una situazione iniziale coinvolgendo solitamente
molte sfumature del carattere.
Se ci voltiamo indietro la storia del mondo è
colma di episodi che riguardano redenzioni e sintomi
di resa dei conti, attuate in svariati modi o dimostrazioni.
L’impero romano a cavallo dell’anno zero
è fitto di piccole e grandi vendette, come anche
gli aneddoti e le leggende greche sugli umani, gli Dei
e i loro miti. Luigi XVI e Maria Antonietta pagarono
a caro prezzo il risentimento del popolo francese, disperato
e affamato dopo mille inganni, fu la ghigliottina a
fare giustizia. Non sempre e comunque questi gesti sono
o devono essere eclatanti, da libro o cineteca. Ci sono
vendette piccole ma intense, silenziose e feroci, leggere
o invisibili, alcune è doveroso dimenticarle.
Il cinema ne racconta molte e altrettante ne ha raccontate.
In svariate forme e dimensioni, lingue e tradizioni.
Se vogliamo convertire in immagini e memoria storie
di uomini, donne e vendette, non è facile inseguirle
tutte nel tempo ma ugualmente proviamo a ricordarne
alcune tra le più recenti. Viene in mente Charles
Bronson ne Il giustiziere della notte (1974) dove sopperisce
da solo e con furore al lassismo e alle lacune del servizio
pubblico di tutela della città. The Warriors
(1979) di Walter Hill inscena una vendetta fittizia
e impropria nei confronti degli incolpevoli “Guerrieri”,
rei di aver ucciso Cyrus, il boss delle bande di Manhattan.
Silvester Stallone in Rambo (1982) torna dal Vietnam
per farsi giustizia da solo verso i propri superiori
dopo aver subito un torto d’onore e lealtà.
In Rocky IV (1985) ancora Stallone cerca vendetta sul
ring per la morte dell’amico Apollo Creed combattendo
contro Ivan Drago, sovietico, durante il periodo della
"guerra fredda”. Leon (1994) di Luc Besson
elabora una redenzione indiretta, Jean Renò è
il sicario trasversale per della piccola Natalie Portman
alla quale è stata sterminata la famiglia. Anche
L’uomo in più (2001) di Paolo Sorrentino
mostra una vendetta impersonale, per empatia, Antonio
fa giustizia per il suo omonimo malinconico, vittima
di ripetute menzogne e sogni interrotti, che non ce
l’ha fatta. The life of David Gale (2002) di Alan
Parker è una vendetta atipica ed auto inflitta
nei confronti del sistema carcerario statunitense e
sulla pena di morte. Alexandra’s project (2003)
di Rolf De Heer è l’attuazione cruda e
cinica di una vendetta coniugale al femminile che risponde
alle prevaricazioni maschiliste e ai soprusi di un marito
prepotente. Nello stesso anno Dogville (2003) si conclude
con una violenta catarsi e il segnale di Nicole Kidman
ad un omicidio di massa a cancellare gli affronti subiti
e le cattiverie commesse da una società dal male
congenito. Ma la vendetta non appartiene solo ai cosiddetti
“buoni”, nei recenti La vendetta dei Sith
(2005) di George Lucas e A history of violence (2005)
di David Cronenberg la vendetta assale i “cattivi”,
risentiti da eventi passati e finalmente pronti alla
nera rivincita, tornano dal passato per uccidere e sistemare
cose lasciate in sospeso. Facendo un salto nell’immediato
futuro, a marzo i fratelli Wachoskwi (creatori di Matrix)
ci regaleranno V per Vendetta, per la regia di James
McTeigue, dove un misterioso reazionario futurista si
oppone al potere della dittatura. A breve invece i grandi
schermi accoglieranno anche Munich di Steven Spielberg,
tratto dal libro Vengeance di George Jonas, che racconta
(dal vero fatto di cronaca) l’assassinio di 11
atleti israeliani ai giochi Olimpici di Monaco del 1972
in Germania da parte di un gruppo di palestinesi sostenitori
dell’OLP e poi il conseguente castigo nei confronti
degli stessi assassini a fatto avvenuto.
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Violenza
e vendetta sono oggi più che mai a braccetto
nei piccoli e grandi schermi, figlie della centrifuga
del progresso, sintomi di una società
occidentale sotto pressione, ipocondriaca, istintiva
e selvaggia. Vendetta e violenza s’incrociano,
si amano, si scambiano effusioni. S’intersecano
e si riflettono delle stesse paure. Non so se
sia legittimo insinuare le immagini come parziali
colpevoli di comportamenti irresponsabili o
disumani, ma senz’altro il video e lo
schermo si cibano di questo malessere esistenziale
che genera tensione muscolare e cerebrale e
che, fagocitandolo, a sua volta ripropone come
in una parete riflettente una condizione generale
rivelatrice di zone spaventosamente impreviste.
Lo spettatore si rivede, elabora, prende posizione.
La paura, il disordine e il malcontento generano
vendette e di conseguenza violenze. L’educazione
visiva non fa pubblico e i rischi di un collasso
comportamentale aumentano. La condizione che
la società moderna attualmente impersona
proviene da un |
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tragitto
che attinge forse anche dalle proiezioni del tubo catodico,
dai programmi TV e dalle psicosi via cavo. I telegiornali
forniscono immagini spettacolari e sconcertanti più
con la logica dell’audience che della notizia,
i format d’intrattenimento di bassa lega ci phonano
la testa da pensieri umidi e carichi di pioggia, la
politica vista in TV è uno stimolo ad essere
furfanti ancor prima che cittadini. L’abitudine
ad uno scarso livello culturale generale, un soglia
di superficialità acquisita, insieme alla precarietà
di una vita normale, il calderone internet e una certa
forma di individualismo, hanno poi gradualmente aiutato
il livello di guardia di un conforme tasso di violenza
a spostarsi verso limiti critici. Occhi e orecchie costantemente
in agguato, per scorgere all’orizzonte un nemico
di cui non conosciamo il volto ma dal quale è
bene proteggerci.
Nel 1943 Giorgio De Chirico dipinge un cavaliere sul
suo destriero intento a brandire la spada contro un
soldato reo di aver ucciso un compagno che a terra resta
senza vita. Il quadro s’intitola La vendetta.
Non si sa se quel soldato è davvero l’omicida
dell’amico ma il cavaliere vuole comunque il sangue
di un colpevole e non esita ad assalirlo. Anche l’arte,
la letteratura e il cinema cavalcano la voglia di un
legittimo senso di resurrezione e per far questo attingono
anche dalla realtà, s’impastano con fatti
realmente avvenuti e mentre la cronaca si confonde sempre
più con l’artificio, tutto tende a diradarsi
nelle immagini che quotidianamente scorgiamo.
Un certo cinema che corre dall’inizio del nuovo
secolo, sulla scia di eventi e tendenze sopra esposti,
sembra imprimere una velocità d’impatto
assai maggiore di quella degli anni trascorsi. In questi
ultimi anni la forza vettore che sbatte con prepotenza
sulla scena e rifrange sugli occhi dello spettatore,
alimentata da ferocia, brutalità e cinismo, è
aumentata in numero e intensità. Un tempo, non
troppo remoto, gente come De Palma (Scarface), Scorsese
(Quei bravi ragazzi), Carpenter (1997: Fuga da New York)
o Clint Eastwood (sia da attore che da regista) riuscivano
a trovare la profondità adeguata ad una violenza
adatta(ta) al racconto, funzionale allo script e coerente
con i personaggi coinvolti, dove difficilmente un gesto
efferato poteva risultare gratuito o fine a se stesso.
Oggi, in pochi ci riescono. La violenza ha metabolizzato
il cinema americano (e non solo quello), spesso portatore
poco sano di questo “metodo” per rapire
l’interesse di giovani e meno giovani. Ma se tutto
o quasi sembra ormai coniato in serie, c’è
chi, per fortuna, riesce a fare della violenza una proteina,
un catalizzatore di storie affascinanti. Due esempi
su tutti: i due capitoli di Kill Bill di Quentin Tarantino
e la trilogia sulla vendetta di Park Chan Wook, sono
come animali in estinzione, da proteggere. Si elevano
all’alto cinema per i loro contenuti e lo sguardo
coerente e ammaliante della macchina da presa. Si salvano
dai fucili della critica e dalle frecce del pubblico
perché integrano momenti di grande raffinatezza
a sapiente humor nero oltre ad uno stile personalissimo
e ad una originalità estetica curata in ogni
dettaglio. |
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Park
Chan Wook gira la giostra nel 2002 con Sympathy for
Mr. Vengeance (Mr. Vendetta), che getterà il
ponte fino ad oggi. Le intuizioni sono molte e ben assortite,
ma la trama pecca di confusione, disperde molte delle
idee valide e la regia si accontenta. Crea un di ronzio
di cattiveria comune e segna la vendetta sia come rito
individuale che collettivo, dove tutti cercano la propria,
trovandola e spesso cadendo sotto la stessa. Nonostante
la pellicola non lasci troppo il segno ha il merito
di mostrare il regista sud coreano agli occhi della
critica mondiale. Nel 2003 è Quentin Tarantino
a fare la mossa. Kill Bill Vol. 1, un revenge-movie
dallo stampo western e di una cruenza al limite tra
ferocia e commedia, vede Uma Thurman nei panni della
sposa cercare la vendetta personale nei suoi ex colleghi
sicari fino a giungere a Bill, suo passato amante, adesso
acerrimo nemico. Nel 2004 è di nuovo Park Chan
Wook a muovere verso Old boy (2004), secondo atto. Un
film cinico e oculato, crudo e brutale, lucido come
una ferita fresca, ma tuttavia denso come la coagulazione
della stessa. Originale e bellissimo, colmo di emozioni
e dal finale da colpo di scena per una regia più
matura e concentrata. Gli vale il Gran Premio della
Giuria al Festival di Cannes. Nello stesso anno esce
però anche Kill Bill Vol. 2, prosecuzione dell’atto
vendicativo di Beatrix Kiddo intenta ad eliminare tutti
i componenti della sadica banda. A differenza del primo
spaccato, sanguinario, ginnico e splatter, il secondo
spiazza tutti giocando d’arguzia, con immagini
più intime e avvalendosi di rimandi al cinema
orientale delle arti marziali, mostrando tutta l’abilità
di Tarantino nel creare situazioni realistiche nonostante
il plot sia quasi fumettistico. Il nuovo Sergio Leone
americano ha fatto centro. Apoteosi di pubblico e critica.
Nel 2005, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia,
ecco infine Sympathy for Lady Vengeance (Lady Vendetta)
a chiudere la trilogia dell’autore coreano. Geum-ja,
bella e sensuale, dopo aver scontato tredici anni di
carcere per un omicidio non commesso, troverà
il vero colpevole per una vendetta cercata e voluta,
passando una fase di cattiveria insita e profonda per
l’odio accumulato. La condivisione dello stesso
sentimento le darà mano a spartire il delitto
con altri “affini” rancorosi e infinitamente
colpiti dal dolore.
Possiamo
dire che Quentin Tarantino e Park Chan Wook sono simili,
si somigliano per lucidità e spessore delle
storie, per originalità e coerenza dei personaggi.
Hanno entrambi la vendetta negli occhi come una stella
buona che guida la rotta. E la violenza come espressione
della stessa. «La violenza è una mia
ossessione» commenta PCW «ma non è
mia intenzione esaltarla, mi servo solo di essa per
ottenere la redenzione». Una giustificazione
dei mezzi quindi, un modo per applicare la legge della
redenzione senza sentirne la colpa o espiare la stessa
proprio con l’efferatezza. Analogie e differenze
tra i due autori si tratteggiano via via che le immagini
dei film in questione si ripresentano nella memoria
insieme alle sensazioni che tornano a galla. Kill
Bill attua il processo in due atti corrispondenti
ma dai ritmi differenti, crescendo di qualità
e metodo, Park Chan Wook lo fa usando tre film, come
tre tonalità diverse di colore, arrivando a
dipingere un articolato e complesso ritratto della
rivalsa («Come studioso di filosofia non credo
nella superficialità, ritengo oltremodo giusto
andare fino in fondo nell'esplorazione, andare alla
fine, andare all'estremo»). Si delineano successivamente
due rappresentazioni in fondo molto diverse di concepire
la vendetta e la sua progettazione.
Gli ultimi due film della trilogia di Park Chan Wook
finiscono eterei nel candore di una neve cadente dopo
una presunta riscossa. Forse tutta quella violenza,
quell’odio, quella fame di rivincita si sono
spenti scemando dopo aver gettato lo sporco dietro
le spalle, si sono diradati come la nebbia sul mare
al primo sole. Le palpebre possono finalmente riposare
mentre l’occhio rilascia le lacrime, dopo un
dolore ripensato e il piacere di averlo represso almeno
per un po’. SFMV risulta acerbo, carente di
uno spessore drammatico uniforme e di uno stile proprio
e definito. Poi il trittico visto nella sua interezza
pian piano migliora, nella regia, nelle scelte narrative,
nella forza del messaggio. Old boy assembla le prodezze
di scrittura ed originalità di SFMV alla poesia
nera di SFLV, restando la in mezzo, ad illuminare
ai propri fianchi un vendetta che prende forma da
sinistra verso destra, proprio come un libro che si
spiega leggendo, una parola ancora non terminata che
si disegna mentre la si scrive sul foglio. Il regista
coreano al termine della trilogia, a vendetta completata,
sembra giunto ad uno stato di grazia. Svaria sui fronti
senza dare riferimenti, accosta immagini dense di
sentimento e amore ad ombre che il passato ci spinge
addosso, usa contrasti di luce e torpore, passa dal
gelo dell’assassinio e della ferocia, al bollore
dell’oppressione interiore. Il passo è
breve. I confini quasi si toccano.
Tarantino parlando del suo Kill Bill è invece
più analitico nel definire il sistema-film
«Credo che la rabbia appartenga al genere che
tratto, è un film di vendetta. Si parla di
vendetta sanguinaria. Se avessi voluto fare qualcosa
di più complesso l’avrei fatto».
La vendetta di Quentin Tarantino è più
spettacolare, più agile, atletica. Meno soave.
Egli fa del percorso di redenzione quasi un video
game a livelli, dove uno dopo l’altro si arriva
al boss finale per concludere l’avventura. Sotto
un aspetto prettamente dinamico difatti in Kill Bill
la vendetta si persegue attraverso l’eliminazione
dei colpevoli a schema di passaggio, dal più
debole al più forte, far piazza pulita è
un’operazione matematica, di conteggio, da spunta
sul bloc notes. Lo stile di Tarantino, che stima i
lavori del collega orientale («Ammiro molto
gli ultimi film di Park Chan Wook»), arriva
dall’esperienza di film d’azione e sceneggiature
da western metropolitani, farciti di lotta, sparatorie,
inseguimenti e sudore. In Kill Bill Tarantino usa
zoom “a schiaffo” e primi piani come facce
catturate dall’obiettivo di un’arma a
fuoco, fa sentire il respiro pesante e l’affanno
della rincorsa.
PCW, che a sua volta rimane rapito dalle opere del
regista americano («Il suo film che preferisco
è Le Iene»), usa invece metodi meno rudi
e virili, più aggraziati e musicali anche quando
l’immagine richiede decisione o tensione. Il
movimento della macchina da presa è lento e
gentile e SFLV è una lente di fuoco perfetta
per dimostrarlo, mette in pratica tutto il processo
di creazione del regista coreano, è l’armonia
la chiave di lettura della vendetta di PCW. Se nella
prima metà di SFLV si cerca un prologo tra
flashback e rimorsi per affilare la punta, la seconda
è l’epilogo di una fiaba dark, oscura
e possibilista, ambientata nella vecchia scuola abbandonata,
col buio fuori e la completa gestione della situazione
dove ormai la vendetta tanto attesa è vicinissima.
Una partita a scacchi gelida e di una carica emotiva
potentissima, data anche dalle sequenze dei video
degli omicidi dei bambini uno dopo l’altro,
indifesi e puniti senza colpa dal maestro al quale
Geum-ja ha dato la caccia. Il sangue che scorre a
testimoniare il colore della passione e dell’atto
compiuto. Tutto è finito. Anche se il dolore
è difficile da lavare via: «I miei film
cercano di rappresentare il senso della tragedia,
l'inevitabilità della vita umana che appartiene
a tutti quanti noi esseri umani». L’ultimo
film della trilogia è l’espressione di
una vendetta dolce e ed elegante (che per tratti somatici
e ritmo assomiglia a L’uomo che non c’era
dei fratelli Cohen), assolutamente antitetica alla
redenzione tarantiniana di Kill Bill. Il primo imprigiona
l’odio nel cuore e lo rilascia con cinismo e
disprezzo, volendo la sofferenza della vittima più
di qualsiasi altra cosa, il secondo trova nello stomaco
la scatola da detonare e la spada intinta nel rancore
le contromosse al sopruso, facendo del fisico e dell’astuzia
gli enzimi per la riuscita dell’operazione.
Mentre Geum-ja implode e porta quasi sempre dentro
la sofferenza e l’attesa di una redenzione,
sia in carcere che fuori, la sposa esplode all’esterno,
trovando via via nei truculenti omicidi uno sfogo
parziale alla rabbia accumulata. I movimenti di Geum-ja
sono intrisi di erotismo, la ragazza porta addosso
la sensualità di una cattiveria repressa e
riesce a donare alle immagini una poesia costante,
un lirismo nero e affascinante. Beatrix ha dalla sua
lo sguardo dell’assassino pronto allo scatto
e dalla lama pronta, ma in Kill Bill Vol. 2 si mischia
anche a quello di una madre intenta ad abbracciare
la propria figlia. Quel che in Kill Bill dopotutto
affascina è che nonostante orde di morti, mutilazioni
senza numero, lacrime, sangue e odio, tutto trova
soluzione attraverso l’amore. E’ l’amore
a giustificare, o quasi, le azioni feroci e gli assassini
commessi, ad elevare la pellicola quasi ad un film
sentimentale. L’amore estremo di Bill, innamorato
di Beatrix, e quello di quest’ultima per la
figlia data alla luce e mai incontrata sono i moventi
per i due capitoli della saga. In fondo la mamma è
sempre la mamma, anche se risulta essere il sicario
più letale d’America. Sotto certi aspetti,
di stile, scelta di percorso e di azione dinamica
Old Boy è la vendetta di PCW che più
si avvicina a Kill Bill, anche se poi prendono strade
diverse. Per alcuni attimi e in alcune circostanze
l’uno è perfettamente sopra l’altro
come nella traslazione di due piani. Come un elastico
che si allunga e ritorna, i due autori tornano però
ad avvicinarsi.
Entrambi gli autori ribaltano la vendetta per come
l’immaginario collettivo ce la consegna, usando
il sesso apparentemente debole come mezzo d’azione
e dove la violenza serve a riconsegnare il rispetto
alla femminilità e al suo intelletto, un filo
che collega Jackie Brown a Geum-ja, passando ovviamente
per l’alter ego di Uma Thurman. Sia Tarantino
che Park Chan Wook sembrano mandare un segnale di
allarme, un indizio subliminale che porta il segno
dello sconforto, la rabbia come unica possibilità
allo stato di sofferenza individuale che diventa collettiva
per osmosi. Singoli individui, personaggi accecati
dall’odio, che prendono a legittimo pretesto
una situazione personale e un alibi condivisibile
per muovere verso una rivolta, una dimostrazione di
violenta riscossa contro un nemico concreto quanto
invisibile. Uno stato di disagio comune a tutte le
terre emerse che si propaga senza bisogno di lingua
e bandiera, senza razza o classe sociale e che finisce
negli occhi di assassini buoni, nati dalla penna o
dallo schermo per rappresentare l’imperfetta
tentazione di una voglia comune, un taglio che dimostri
il sangue dietro la superficie piatta.
“Il
fuoco che taglia fantocci di sabbia | Fuoco di cera,
sento dentro sento fuori, che grida alla gente, la
gente è aria | Vedrò lo so, centomila
altre vendette” cantavano i Litfiba nel 1987.
In quell’anno le vendette nel campo cinematografico
sono poche e deludenti (il sangue e la paura de Lo
squalo 4 – La vendetta e la morbosa psicosi
sentimentale di Glenn Close, sedotta e abbandonata
da Michael Duglas in Attrazione fatale), ma ce n’è
una forse più magica e profonda. Una vendetta
che arriva dallo sport, viene dal Sud Italia: il Napoli
di Diego Armando Maradona vince il primo scudetto
della sua storia ostentando i colori caldi del Meridione
nei confronti dello strapotere (non solo sportivo)
del Nord. Si può parlare di vendetta? Credo
di si. Tornando al tempo presente e a parlare di cinema,
Gianni Canova, direttore del mensile Duellanti, nel
suo ultimo editoriale esprime un malinconico parere
riguardo alla situazione attuale: «Un certo
tipo di Cinema sta là, nel secolo scorso, con
le sue ombre sfuggenti in bianco e nero, che sanno
tanto di Novecento, e di archeologia. Certo, sopravvivono
i film: che si consumano però in altre forme,
in altri tempi e in altri luoghi, rispetto a quelli
del cinema». Forse entriamo nell’era dove
il film viene semplicemente visto e non più
guardato, passando da una fase di necessità
ad una di riempimento del tempo libero. Anche lo sguardo
si fa dunque più violento, rapido e distratto.
E se i cambiamenti sono spesso origine di risentimento,
il cinema fa forse scontare con le immagini e l’attrito
delle sue storie l’avversità al mondo
fuori dalle sale, per reclamare ancora attenzioni
e passione. C’insegna ancora una volta a nutrire
gli occhi di piccoli ed evanescenti delitti. Nuove
redenzioni all’alba di questo millennio, tra
queste ci potrebbe essere la nostra. Quella che abbiamo
sempre e invano atteso fino ad oggi. La vendetta è
nell’aria. Ma basta respirarla e lasciare che
ci guidi.
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Ritratto
| Ipse
dixit | Cinema e Società | Mr
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