Grandi
poteri, comportano grandi responsabilità… ma
anche grandi tentazioni. Soprattutto se questi si manifestano
quando meno te li aspetti, senza nessun “maestro”
ad indirizzarli nella giusta direzione. E’ quanto accade
a David Rice, che senza sapere ne come ne perché, si
ritrova da prigioniero sotto le acque di un lago ghiacciato
a boccheggiare nel corridoio di una biblioteca pubblica.
David è un ragazzo problematico, abbandonato dalla
madre e nelle mani di un padre ubriacone. Cresce sbeffeggiato
da tutti, afflitto da problemi da cui vorrebbe fuggire, fino
a quando non scopre di possedere il “potere” di
farlo: scappare da tutto quello che vuole evitare in qualsiasi
momento lo desideri.
Perché David Rice è un Jumper, ovvero un saltatore,
colui che ha la capacità di “teletrasportarsi”
in un altro luogo. Esistono delle regole che noi apprendiamo
confusamente insieme al personaggio durante lo sviluppo della
storia. Può saltare in qualsiasi posto visibile o in
un posto che si è visto in passato anche solo in fotografia
e fino a quando se ne mantiene il ricordo; infilarsi nelle
‘cicatrici del salto’, squarci spazio-temporali
lasciati da altri Jumper. Sì, perché David non
è il solo a possedere questa facoltà. C’è
ne sono altri, che cadono come foglie secche al vento sotto
i colpi mortali dei Paladini, uomini addestrati alla loro
eliminazione prima che questi diventino schegge impazzite
nei confronti dell’autorità costituita.
Il sogno del teletrasporto di Star Trek
si è evoluto ed applicato come perno centrale
di quella che nelle intenzioni dei suoi autori dovrebbe evolversi
in una vera e propria saga di 4/5 capitoli e rivoluzionare
il cinema. Insomma siamo nel pieno dell’anno 1 d.j.
(dopo jumper); non vi sentite eccitati? In realtà Jumper
passerà alla storia del cinema unicamente per il fatto
di aver ottenuto dal Ministero per i Beni e le Attività
Culturali e della Soprintendenza Archeologica di Roma, il
permesso di girare per tre giorni, non solo all’interno
del Colosseo ma anche nel labirinto dell’Anfiteatro,
un’area normalmente interdetta anche al pubblico. E
questo, con il dollaro debole di oggi, credetemi, è
una gran cosa.
Per il resto non si discosta troppo da un medio action movie
incentrato sulla più classica delle storie d’amore
e sul conflitto tra il protagonista ed il capo dei Paladini,
un Samuel L. Jackson invecchiato e prigioniero di una pensione
d’orata, grazie a ruoli da macchietta come questo.
Peccato, perché temi più originali come l’uso
del super poteri al servizio del bene non comune ma personale,
vengono solo accennati come quando Rice costruisce la sua
fortuna teletrasportandosi all’interno dei caveau di
numerose banche, ma non sviluppati.
Il regista Doug Liman, che dopo un folgorante esordio nella
commedia Swingers si è
impantanato in blockbuster fracassoni (The Bourne Identity)
e senza anima (Mr e Mrs Smith),
adotta uno stile nervoso, sincopato, confuso, attraverso l’uso
ricorrente della macchina a mano e di inquadrature sghembe,
fintamente approssimative. Ma Liman non è Paul Greengrass
(Bloody Sunday, United
93, Bourne Ultimatum)
che sull’estetica della macchina a mano ha costruito
egregiamente la sua poetica.
Il risultato è un puzzle incompleto, in cui le tesserine
che lo compongono sono gettate alla rinfusa all’interno
di una storia troppo prigioniera del proprio ritmo e preoccupata
di vomitare informazioni utili allo spettatore piuttosto che
incentrarsi su personaggi, psicologie e recitazioni degni
di questo nome. Splendidi paesaggi raccolti in mezzo giro
del mondo ed effetti speciali sempre più elaborati
sono i pilastri su cui poggia questa anemica pellicola da
dimenticare in tutta fretta “teletrasportandosi”
fuori dal cinema. Fatto? [fabio
melandri]