In concorso
a 61° Festival di Cannes, il film scritto e diretto da
Paolo Sorrentino, ha vinto il Premio della Giuria, oltre a
quello per i valori tecnici (assegnato al direttore della
fotografia Luca Bigazzi e a quello del suono Angelo Raguseo
per l'armonia dell’immagine e del suono).
Il regista napoletano, ha dichiarato in sala stampa: “Era
un film molto rischioso, quindi avere un premio non era previsto.
Giulio Andreotti è un personaggio incredibilmente cinematografico
e raccontare gli anni del suo potere mi ha dato l’opportunità
di parlare di un periodo sconvolgente per l’Italia,
un periodo sul quale ritenevo fosse importante tornare per
capire qualcosa in più dell’Italia di ieri, ma
anche di quella di oggi”. Invece il presidente della
giuria di Cannes, Sean Penn ha sottolineato il “potere
travolgente e autenticità del film. Un linguaggio a
servizio di un cinema di grande dinamismo. L’audacia
di fotografia che racconta come va il mondo e la politica
in modo umoristico e pieno di energia. Corrisponde ad un nuovo
genere che forse un giorno si chiamerà cinema pop”.
Ed ora parliamo della pellicola.
«Il mal di testa è sempre stato il mio problema,
quando feci la visita medica per il militare il medico mi
diagnosticò sei mesi di vita, ma è stato lui
a morire prima di me e dopo molti altri. Queste gocce che
prendo per il mal di testa le ho mandate anche a Pecorelli.
Ma è morto pure lui». Il film è iniziato
da qualche minuto, ma solo adesso viene pronunciata la prima
battuta: è di Giulio Andreotti (impareggiabile Toni
Servillo, poco somigliante ma identico nello studio dell’intimità
dell’uomo Andreotti) che con degli aghi sulla fronte,
riflette mentre prende appunti. Prima di questa immagine,
però, viene presentata una carrellata di omicidi devastanti.
Sono quelli di Roberto Calvi impiccato sotto il ponte di Londra,
di Michele Sindona, Carmine Pecorelli, Carlo Alberto Dalla
Chiesa, Giorgio Ambrosoli, Aldo Moro (che torna per tutto
il film come memento della coscienza del senatore, che lo
vive “come una seconda emicrania”), fino a quello
felliniano “incidente” di Giovanni Falcone. Tutti
vengono titolati in rosso (non sarà un caso, se è
il colore dominante nei titoli), per non far perdere un solo
“corpo” allo spettatore più giovane e per
identificare la storia con le immagini.
Il periodo è quello tra la fine del settimo, conclusosi
nel giugno del 1992, e l’inizio del processo per associazione
mafiosa che lo ha visto coinvolto nelle vesti di imputato.
In sintesi potrebbe essere questo il film: l’impassibile
politico Andreotti e le morti connesse ai sette governi che
l’hanno visto protagonista. La vicenda viene descritta
da Sorrentino con uno spunto grottesco che dà la cifra
stilistica alla pellicola e rende plausibile ogni scena. Da
quella mai confermata dell’incontro tra Andreotti e
Riina, a quelle in cui si ferma davanti ad un gatto bianco
mentre si avvia alla settima Presidenza. Senza dimenticare
quelle più familiari, intime: il Divo che guarda la
tv in compagnia della moglie Livia (profonda e calibratissima
Anna Bonaiuto) e senza parole si commuovono ascoltando “I
migliori anni della nostra vita”, cantata dal vivo da
Renato Zero, i chilometri dentro casa per sfogare la tensione
fino alla fedele segretaria Signora Enea (impeccabile Piera
Degli Esposti) che lo segue silente e lo incita a “stare
dritto”. Senza dimenticare le scene delle riunioni della
corrente andreottiana, con Cirino Pomicino (Carlo Buccirosso)
irrefrenabile e sempre circondato da belle donne; Vittorio
Sbardella (Massimo Popolizio) ingombrante ma consapevole della
grandezza del politico quando il senatore non viene eletto
Presidente della Repubblica; Giuseppe Ciarrapico (Aldo Ralli);
il cardinale Angelini; Franco Evangelisti (Flavio Bucci) e
Salvo Lima (Giorgio Colangeli). L’uccisione di quest’ultimo,
viene proposta con un montaggio parallelo degno della storia
del cinema: morte e corse di cavalli. Alla notizia della morte
di Lima, Andreotti reagisce con assoluta freddezza, parlando
al telefono con la cugina (scena realmente vissuta dal regista
quando ha incontrato il senatore).
Cinema politico quello di Sorrentino. Dopo L’amico
di famiglia, incentrato sull’usuraio sessantenne
di una cittadina dell’Agro Pontino, la scelta ricade
sul simbolo dell’Italia: la Sfinge, il Gobbo, La Volpe,
il Papa nero, Belzebù. In altre parole il Divo Giulio,
emblema di una riflessione sui mali del nostro Paese. Il paragone
con Francesco Rosi ed Elio Petri non è azzardato.
[valentina venturi]