28
giorni il tempo che il virus della rabbia impiegò per
annientare la Gran Bretagna continentale, trasformandola in
una terra di nessuno popolata da zombie voracissimi e velocissimi.
28 settimane dopo, il virus sembra
essere scomparso e gli infetti annientati dalla carestia di
carne umana fresca. Grazie all’aiuto dell’esercito
degli Stati Uniti d’America, viene avviata la ripopolazione
dell’isola inglese a partire dalla sua capitale, Londra.
Come in una sorta di 1999 fuga da New York all’inverso,
viene creata una zona franca e sicura – il primo Distretto,
fortino roccaforte ed apparentemente inespugnabile per virus
e appestati. Ma quando il virus si ripresenta sotto inaspettate
spoglie, l’infezione rischia di travalicare ogni confine
fisico, psicologico, etico.
28 settimane dopo segna il sequel
di 28 giorni dopo il thriller
orroririfico di Danny Boyle (Trainspotting,
Piccoli omicidi tra amici, Sunshine),
con il regista inglese che passa la macchina da presa nelle
mani del talentuoso Juan Carlos Fresnadillo autore del provocante
thriller Intacto. Boyle si riserva
i panni di produttore esecutivo insieme al fido Andrew Macdonald
e si toglie lo sfizio di realizzare come regista il prologo
agghiacciante ed entusiasmante del film, in cui alcuni sopravvissuti
rifugiatisi in un casale di campagna tentano di sopravvivere
all’epidemia. Ma improvvisamente qualcuno bussa alla
porta e…
Rispetto al precedente, la storia è ridotta ai minimi
termini, puntando piuttosto sul grande ritmo della narrazione,
sugli effetti splatter diffusi con profusione ed a una tensione
tenuta alta da una regia semplice, lineare, essenziale. Nessun
riferimento o valenza politica “sporca” la visione
action e depotenzia la tensione del film come ne La
notte dei morti viventi di George A. Romero, ma la
stessa fotografia plumbea dai toni desautorati di Match
Point di Woody Allen e I
figli degli uomini di Alfonso Cuaron illumina una Londra
che con i suoi scorci immortali e le sue architetture avanguardiste
rappresenta lo scenario perfetto di un incubo ad occhi aperti.
Incubo che si colora di rosso emoglubinico che inizia a fuoriuscire
da occhi, narici e bocche di protagonisti e comprimari. Un
film apprezzabilissimo per il suo tono disincantato e decadente
di cui sono impregnati i singoli protagonisti dotati di una
dignità quasi classica nei confronti del loro inesorabile
destino che non possono non suscitare simpatia e partecipazione.
Azione, disimpegno, pura ricerca della suspence che immerge
le sue radici nelle paure ataviche del genere umano per esplodere
in una violenza paradossalmente terapeutica.
[fabio melandri]