2057.
In un apocalittico futuro la terra rischia il gelo perenne
(quindi una morte lenta) causa lo spegnimento del sole. La
stella che dà luce all’universo sta pian piano
affievolendosi e il nostro pianeta, oramai una distesa di
ghiaccio e neve, teme le sorti di una spedizione come unica
speranza.
Un’equipe di 8 giovani scienziati in missione sulla
nave spaziale Icarus II (la missione “I” fallita
sette anni prima con un altro gruppo) trasporta una bomba
grande come la superficie di Manhattan con lo scopo di lanciarla
nel sole, creare una reazione e riaccenderlo nei secoli dei
secoli. Ma qualcosa va storto e i piani si complicano.
Danny Boyle torna alla regia dopo 28
giorni dopo ancora supportato dalla penna di Alex Garland
(sceneggiatore) con un film anfibio, un fantascientifico giallo
intergalattico, un ibrido tra l’horror ed il thriller
tra atmosfere cupe e psicologia umana, confermando la poliedricità
e la curiosità creativa del regista inglese che continua
a cambiare costantemente direzione dimostrando coraggio e
versatilità.
I riferimenti ai quali Boyle si “appoggia” sono
diversi, si passa da Solaris
di Tarkovskij ad Alien, dall’Odissea
nello spazio di Kubrick agli Space
Cowboys dell’immortale Clint Eastwood.
Il computer di bordo, Icarus II, nel suo comunicare con l’equipaggio
e dare informazioni rievoca Hal 9000, nelle sue memorabili
risposte umanoidi e nella voce sintetica (anche se stavolta
femminile) e il senso di claustrofobia evocata è quella
della saga di Sigourney Weaver, anche se qui nessuno viene
rincorso nei cunicoli. O quasi. La mdp si affaccia sulle inquadrature,
come ad uscire dal corridoio e scorgere i presenti sulla scena,
a coglierli sul fatto o sul dialogo indiscreto, un occhio
invisibile, una presenza rarefatta come lo spettatore in sala.
Il film miscela momenti di stasi ad altre di movimento, si
alternano infatti situazioni di valutazione di rotta, preparativi
per la missione e decisioni da prendere in merito alla spedizione,
momenti di dialogo tra i protagonisti nei quali emergono e
si assimilano caratteri, ruoli e attitudini. Ma l’azione
non tarda ad arrivare: riparazioni esterne in tuta spaziale,
imprevisti danni alla nave e presenze sopraggiunte dal passato
(non sveliamo quali) terranno il ritmo sempre più alto
ed in crescendo da metà film in poi, fino al culmine,
al finale quasi inevitabile, forse scontato ma non banale.
Danny Boyle sembra con quest’ultimo lavoro affinare
la sua regia, renderla meno sincopata del solito, lasciare
da parte il sarcasmo inglese e l’atmosfera da eterno
teenager e impadronirsi invece di uno stile più raffinato
e maturo, più risoluto e snello. L’ambiente futuristico
non è semplice da ricreare, ma il suo team-project
è riuscito a tenere i costi totali sotto la soglia
dei 40 milioni di dollari (difficile per film simili) e nonostante
tutto a ricreare un’atmosfera a metà in cui nella
prima parte del film si sofferma sull’ammirazione, del
sole e della sua potenza “buona”, dello spazio
e i suoi infiniti limiti. Lo spazio come il mare, entità
che scatenano contemplazione per alchimia ma allo stesso tempo
senso di timore, in entrambi l’oscurità e l’assenza
sono indistintamente fonte di calma e paura. Detto fatto.
L’errore umano è una scintilla, ed in questo
caso da il via ad una serie di sfortunate vicende che decimeranno
i protagonisti.
Boyle, in un attualissimo stile televisivo propagandista pubblicitario,
utilizza anche la fastidiosa ma efficace tecnica dei flash
subliminali per insediare i volti (felici il giorno del decollo)
della missione precedente nella nostra mente come uno scatto
di una polaroid.
L’intreccio regge fino a 3/4 di film, dove una trovata
fanta horror mischia le carte di un film assolutamente coerente.
La scelta stilistica (che non riveleremo e di evidente segno
Garneriano) risulta forse troppo azzardata e un po’
forzata, ma nel complesso è ben assorbita con effetti
di ripresa che confondono lo sguardo e lasciano una sensazione
di evanescenza. Poi capirete. Un’altro appunto è
sicuramente il cast giovane (seppur niente male) che da poco
realismo alla scelta di inviare scienziati sul sole per una
titanica missione verso la salvezza della terra. Qualche elemento
forse più anziano o maturo avrebbe dato più
credibilità al tutto.
Nel complesso il film è piacevole e incuriosisce, non
ha notevoli cali di tensione se non forse nel finale, punto
debole della struttura. Ma c’è da ammirare tuttavia
Boyle per i suoi costanti progetti mai uguali, e per il riuscire
a trasmettere ovunque il suo senso di desolazione e tema dell’apocalisse.
La terra è per lui qualcosa da mettere in pericolo
per renderla interessante (28 giorni
dopo), altrimenti bisogna cercare altrove (The
Beach). Le persone giuste, nel bene o nel male fanno
di te quel che sei (Trainspotting),
ma resta il fatto che solo se vedi le cose come i bambini
(Millions) riesci a divertirti fino in fondo.
Lunga vita a Mr. Boyle dunque ed al suo circo imperfetto di
imperfette creature. [alessandro
antonelli]
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