Le colline hanno gli occhi

The Hills Have Eyes
[fabio melandri]

Regia
Wes Craven
Sceneggiatura
Wes Craven
Fotografia
Eric Saarinen
Montaggio

Wes Craven
Musica
Don Peake
Interpreti
Susan Lanier, Robert Houston, Martin Speer, Dee Wallace, Russ Grieve, Virginia Vincent, John Steadman, James Whitworth, Michael Berryman
Anno
1977
Durata
89'
Nazione
USA
Genere
horror
Produzione
Blood Relations Co.
Correva l’anno 1977 quando un giovane professore di filosofia di Cleveland, Wes Craven, con all’attivo un solo film a basso costo, L’ultima casa a sinistra - storia di una sanguinosa e violentissima vendetta di una coppia di genitori nei confronti degli assassini della loro amata figlia-, porta sullo schermo una storia di cannibalismo, di deformazioni psicologiche e fisiche, una storia di degenerazione familiare: Le colline hanno gli occhi.
Inserito in quel filone definito come “massacre movie” il cui esempio più significativo rimane il Non aprite quello porta di Tobe Hooper. Suo punto di forza è la tematica del “cannibalismo” che trae origine dal caso sensazionale del serial killer Ed Gein, un distinto signore che negli anni Cinquanta seminò il terrore a Plainfield (Wisconsin) uccidendo, decapitando, scuoiando un numero imprecisato di donne. Collane di capezzoli, vagine sotto spirito, mobilio di ossa umane furono rinvenute nella sua casa. I resoconti delle sue imprese furono oggetto di ispirazione per numerosi film che vanno da Psyco (1960) sino al recente Il silenzio degli innocenti (1991).
Il motivo del cannibalismo è sfruttato secondo due filoni ben distinti: i membri di una famiglia che si divorano l’un l’altro (La notte dei morti viventi), modalità secondo la quale la famiglia conserva e nutre se stessa (Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi). La tematica del cannibalismo ha una forte valenza simbolica e politica. In una società capitalista fortemente basata sulla fisicità, sulla materialità, sulla nozione di possesso, questo rappresenta la forma estrema di possessività e dunque lo sbocco logico dei rapporti umani in regime capitalistico. Inserito all’interno dell’involucro, del corpo costituito dall’entità “famiglia” sta per la preponderanza del passato sul presente ed il futuro: la famiglia è cattiva, il mostro è all’interno di noi stessi, le figure parentali distruggono i bambini. Questo modello viene elaborato e messo in scena ne Le colline hanno gli occhi, con la famiglia normale (verso la quale lo spettatore non riesce mai completamente ad immedesimarsi) in difficoltà, assediata dalla sua cupa immagine speculare, la terribile famiglia dell’ombra che abita sulle colline. L’intento di quest’ultima è uccidere gli uomini (l’autorità), violentare le donne (la liberazione della sessualità nel film horror è sempre presentata come perversa, mostruosa, dal momento che la perversione, come l’eccesso, sono le logiche conseguenze della repressione; qui la sessualità è totalmente pervertita dalle sue funzioni, in forma di violenza e cannibalismo), divorare il bambino (la nuova generazione). Il film fa perno sull’eterno conflitto dicotomico bene e male, normalità e devianza, che portarono al successo nel passato generi classici hollywoodiani quali il western, il poliziesco, la fantascienza. Ma Craven rispetto al passato fa un passo in avanti e in un mondo deformato e claustrofobico le due parti, una volta venute a contatto, si infettano l’una con l’altra sino a rendersi indistinguibili. E’ l’inesorabile processo regressivo nella violenza, che finisce per abbattere ogni barriera e pervadere tutto. Ricorda Craven “Disposi di avere due famiglie in Le colline hanno gli occhi che fossero le immagini speculari l’una dell’altra, così da poter esplorare tutti gli aspetti della personalità umana”.
Avvalendosi di un budget di $ 230.000, un gruppo di attori sconosciuti, una troupe snella, uno spirito indipendente e pionieristico, il film si ispira a una celebre episodio della storia scozzese del 17° secolo: Sawney Bean, patriarca incestuoso e cannibale, con la sua “famiglia” uccise e divorò centinaia di viaggiatori, prima di finire orrendamente giustiziato insieme ai suoi.
Ambientato nel deserto del New Mexico, in una zona adibita dall’esercito americano per esperimenti nucleari (una sorta di spada di Damocle che pende invisibile sul destino di tutti i personaggi ed incubo ricorrente di fine secolo), protagonista una classica famiglia della middle-class americana in viaggio verso l’Ovest sulle orme dei pionieri di un secolo prima alla ricerca di una fantomatica miniera d’oro, il film assume le fattezze di un western post-moderno.
L’automobile con la roulotte al seguito che attraversa il deserto californiano rimanda alla diligenza di John Ford in Ombre rosse (1939) che attraversava la Monument Valley pressata da un pericolo incombente. Così come un senso di disturbo, un terribile presentimento di morte ed orrore aleggia sul microcosmo rappresentato dalla famiglia Carter: un avvertimento rimasto inascoltato, un incidente provocato dalla troppa sicurezza dei protagonisti; un paesaggio sempre più ostile, illuminato da una fotografia rosso sangue che rende inquietanti anche i dettagli più insignificanti.
Il film sin dalle sue prime inquadrature ci presenta uno scenario definito dall’assenza: assenza di alberi, di vegetazione, di case, di segni di civiltà, ma soprattutto dall’assenza d’acqua e di ombra. E’ l’immagine di un deserto, di quelli che Anthony Mann e John Ford ci hanno reso familiari con le loro opere. Un luogo che sottopone l’uomo a circostanze feroci e difficili, lontano dagli orpelli della civiltà, in cui si rivela la sua reale natura di essere civile o selvaggio travestito. Ma il deserto se da una parte richiama il momento della creazione della terra, tabula rasa su cui ciascuno può scrivere la storia che vuole vivere, il “vacuum domicilium” che i Puritani avevano immaginato per l’America ansioso di essere popolato, è anche e soprattutto paesaggio di morte. E’ un luogo nemico dell’uomo in cui si è esposti a tutto; il sole picchia sodo e non ci sono posti dove nascondersi.
Strane ombre vi si aggirano ed osservano i movimenti della famiglia Carter: soggettive di cui non si conosce l’origine, voci fuori campo per nulla tranquillizzanti, sospiri affannosi e grugniti che hanno poco di umano, dettagli di corpi deformati. In questo modo il regista, nella prima metà del film, costruisce una suspense a volte insopportabile. Lo stesso spettatore rimane all’oscuro, è messo in una situazione di profonda frustrazione. Da una parte è conscio del pericolo imminente, dall’altra non riesce a focalizzarlo, a dargli forma, sembianza. Siamo più nel campo del terrore che in quello dell’orrore. Il primo indica sensazioni impalpabili connesse ad atmosfere più che a visioni, a suggestioni più che a concretezza di esperienza, il secondo sentimenti di disgusto, schifo, insopportabilità fisica. Craven si avvale di campi lunghi e lunghissimi tanto da far assumere al paesaggio un vero e proprio status di Personaggio protagonista. Si inserisce all’interno di una tradizione tutta americana del paesaggio nell’arte in cui le figure umane non dominano lo spazio che occupano, ma stanno in relazione precaria con esso, senza illusioni di dominarlo. E’ la consapevolezza della fragilità della civiltà americana, del suo collocarsi su un confine incerto tra natura e legge. Tra le rocce si nasconde il pericolo, gli immensi spazi immergono i Carter in una dimensione di solitudine che improvvisamente si riempie di mostri.
Una croce di fuoco fende l’oscurità della notte e grida strazianti irrompono nel silenzio ovattato del deserto. Il pericolo finalmente si manifesta. L’orrore si spalanca. Seguendo un piano di strategia militare entra in scena il diverso, “l’altro”, l’indiano, la minaccia alla civiltà dei bianchi colonizzatori, esseri umani che vivono sospesi tra cultura e natura; una natura malata, in stato di decomposizione, infettata dal progresso della civiltà.
La presenza della nostalgia nella cultura americana è una costante non facilmente trascurabile. Al suo ruolo centrale concorrono fattori che affondano le loro radici nelle origini stesse della nazione americana. L’origine europea dei primi coloni puritani, le istanze fortissime di una riconquista del perduto – storicamente la civiltà che ci si è lasciati alle spalle, metaforicamente parlando un Eden oscurato e allontanato dalla Caduta – sono uno dei primi fondamenti della psicologia nazionale americana. Storia e metafisica si fondono, in pretto stile calvinista, a formare un unico atteggiamento, un’unica aspirazione. A ciò va aggiunta una situazione archetipa, unica nel corso storico del mondo occidentale, di regressione dal culturale al naturale, o meglio di scontro reale dei termini oppositivi natura/cultura, che soltanto l’anomalia che costituisce la nascita dell’America bianca poteva attuare (nostalgia della cultura ad est, della natura ad ovest).

La nostalgia spesso assume i contorni dell’ossessione: il passato che ritorna, le colpe degli antenati, la costante presenza simbolica del peccato commesso, l’ansia di passato e di giovinezza come follia. La nostalgia viene a prendere il posto che non vi ha mai occupato, per ovvie ragioni, la tradizione.
A distanza di quasi vent’anni dall’archetipo, Le colline hanno gli occhi torna sul grande schermo in un remake affidato al giovane regista francese Alexandre Aja, che ha conquistato l’attenzione dello stesso Craven, qui in veste di produttore, con lo slasher movie Alta Tensione. Se l’operazione da una parte va vista da una parte con occhio sospetto – la mancanza di idee originali nell’industria americana sta de-generando remake e seguiti per lo più insulsi – dall’altra con partecipata curiosità dovuta ai seguenti motivi: la presenza di Craven nel progetto; la tradizione di buoni remake horror visti recentemente – da Non aprite quella porta a Amityville Horror -; la presenza in cabina di regia di un autore assai interessante e con una cultura europea che innestata su quella americana può dare origine ad interessantissimi incroci; la non eccelsa qualità dell’originale di Craven.
Il regista Aja ha dichiarato di voler mantenere il tema base dello scontro tra civilizzazione e barbarie innestando lo scontro in un clima alla Un pomeriggio di un giorno da cani di Sam Peckinpah. Il trailer online è un antipasto succulento a quello che potrebbe essere la portata finale; gli ingredienti ci sono tutti; auguriamoci che l’impasto sia gustoso e sanguinolento al punto giusto.

| Guarda il trailer | Le colline hanno gli occhi di Alexandre Aja |