Il
sogno americano si fonda prevalentemente su due capisaldi, due
colonne portanti di quel multiculturalismo antropologico su
cui si fondano gli Stati Uniti: la casa e la famiglia.
Il genere horror americano ha più volte indagato il lato
oscuro di tale sogno. E l’incubo americano non poteva
che non partire dalla destrutturazione, dall’annientamento,
dalla defragazione di questi due istituti. Già negli
Anni Settanta con la nascita del New American Horror da parte
di autori come George Romero, Wes Craven, Tobe Hooper, Sam Raimi
e John Carpenter l’istituto familiare fu oggetto di feroci
attacchi senza alcuna esclusione di colpi – ricordate
L’ultima casa a sinistra
di Craven? – e la casa non rappresentò più
quell’alcova sicura in cui rifugiarsi in caso di pericolo
– Halloween di Carpenter
o La casa di Raimi -. Da allora
figli contro padri, mariti contro mogli, nipoti contro nonni,
patrigni contro figliastri... in una immensa e talvolta gratuita
carneficina di corpi smembrati... hanno invaso gli schermi di
tutto il mondo e popolato i nostri peggiori sogni. E se pensavamo
di farla franca rifugiandosi sotto le lenzuola della nostra
cameretta al sicuro nella nostra piccola casetta o appartamento
non abbiamo fatto bene i conti con gli spiriti maligni che puntualmente
abitano gli interstizi delle nostra mura o le umide cantine
umide delle nostre seconde case in campagna, mare o montagna
che sia.
All’interno di questa tradizione, nel 1979 una pellicola
di non troppo pretese raccontò la storia dei coniugi
Lutz andati ad abitare in una vecchia casa in stile coloniale
in cui alcuni anni prima un ragazzo aveva massacrato la famiglia
spinto da voci misteriosi provenienti dall’interno della
casa. Il film diretto da Stuart Rosenberg ebbe un discreto successo
spinto anche dalla morbosa notizia che fosse ispirato ad un
fatto realmente accaduto ma di cui non si ebbe mai assoluta
certezza di veridicità.
Oggi a 26 anni, ne esce il rifacimento aggiornato ai gusti emoglubinici
del pubblico del duemilaecinque.
Solitamente dai remake bisognerebbe tenersi ad una notevole
distanza di sicurezza, ma talvolta capita di imbattersi, è
già capitato nel recente passato con il remake di Marcus
Nispel con il Non aprite quella porta
di Tobe Hooper, in piccole ma piacevoli sorprese. E’ il
caso di questo horror del debuttante Andrew Douglas che sebbene
viaggi tranquillo sul flebile e lontano ricordo dell’originale
imbastisce un’operetta senza grosse mire artistiche ma
con l’obiettivo dichiarato di far passare 90 minuti inchiodati
alla poltrona.
“Le case non uccidono gli uomini. Gli uomini uccidono
gli uomini!” Niente di più falso a quanto pare,
soprattutto se la casa in questione è stata costruita
sopra un antico luogo di orrori e dove le anime dei loro artefici
continuano a spargere il proprio malefico influsso attraverso
i corpi e le azioni di sconsiderati esseri viventi.
Un cast azzeccatissimo con in testa un inquietante Ryan Reynolds
coadiuvato da una intensa Melissa George, che per complicità
e cattiveria ricordano da vicino la coppia Jack Nicholson –
Shelley Duvall di Shining, sono
gli ottimi protagonisti di questo racconto che iconograficamente
getta le sue radici nella tradizione del gotico americano di
Grant Wood.
Un film capace di miscelare con equilibrio i meccanismi della
paura tradizionale, recuperando l’uso di ombre, porte
cigolanti, riflessi su specchi, apparizioni e sparizioni –
che fecero la fortuna della binomio Corman-Poe -, con le meraviglie
degli effetti speciali digitali e dello splatter più
estremo come nel concitato finale. Un crescendo di tensione
che il regista costruisce mattone dopo mattone, prendendosi
tutto il tempo necessario senza indurre noia nello spettatore,
ma anzi stimolando e giocando con le sue aspettative, in un
continuo rimando di soddisfazione e negazione delle medesime.
Un ottimo esempio di cinema medio, capace di sfruttare al meglio
le potenzialità della macchina cinema, della messa in
scena (vedere la sequenza ad alto tasso di vertigine della ragazzina
sul tetto della casa) e del racconto (mai una parola fuori luogo
nei dialoghi, mai un passaggio narrativo superfluo o forzato).
Un film capace di suscitare inquietudine e brividi lungo la
schiena attraverso un impercettibile movimento di macchina o
l’uso espressionista delle luci è un qualcosa a
cui non capita spesso di assistere nel cinema di oggi troppo
di frequente soffocato da un tanto allegro quanto sterile utilizzo
di effettacci gore volti a coprire sceneggiature indecenti e
regie inadeguate.
Dopo tanti mediocri horror modaioli, finalmente una boccata
d’aria malsana per tutti gli appassionati! Produce Michael
Bay regista di Armageddon, Pearl
Harbor e dell'imminente The Island.
[fabio melandri]
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