Quando
Wes Craven, tranquillo professore di filosofia di Cleveland,
girò nel 1977 Le
colline hanno gli occhi, il nuovo cinema horror americano
stava nutrendo le sue radici di viscere e sangue, ispirandosi
a storici serial killer per la parte narrativa e traendo spunto
ed ispirazione dalle recenti immagini degli orrori del Vietnam
riguardo all’estetica. Le colline
hanno gli occhi traeva spunto da un leggendario serial
killer scozzese vissuto nel diciassettesimo secolo che assaliva
i viaggiatori su strade deserte di campagna, uccidendoli in
maniera atroce e cibandosi dei loro resti. Craven traspose
le vicende nell’America contemporanea puntando la sua
lente rosso sangue su una delle istituzioni della società
americana: la famiglia. Se nel suo primo e precedente lavoro
L’ultima casa a sinistra aveva analizzato i meccanismi
di autodifesa del nucleo familiare una volta attaccato dall’esterno,
in questa seconda opera metteva di fronte una contro l’altra
due nuclei familiari similari ma contrapposti, come in uno
specchio che riflette l’animo oscuro e degenere dell’istituto
familiare.
A distanza di quasi trent’anni da quello che rimane
uno dei meno riusciti film di Craven, Alexandre Aja, giovane
cineasta europeo che si è rivelato un paio di anni
fa con uno slasher movie ad alto impatto emotivo come Alta
tensione, riprende la medesima materia narrativa per riproporla
in un remake patrocinato dallo stesso Craven che compare come
produttore esecutivo. Sostenuto dagli amici Gregory Levasseur
alla sceneggiatura e Maxime Alexandre alla fotografia, Aja
riprende la medesima materia narrativa aggiornandola ai tempi
nostri, e puntando più che sul confronto tra famiglia
normale e degenere dell’originale craveniano, sul conflitto,
anch’esso basico e fondante la cultura americana, tra
uomo e natura. Una natura ostile che l’uomo con la sua
opera mira a rendere ancora più nefasta e distruttrice.
La famiglia Carter, composta dal burbero detective in pensione
Big Bob (Ted Levine), dalla loquace moglie Ethel (Kathleen
Quinlan) e dai figli Lynn (Vanessa Shaw) insieme al pacioso
marito Doug (Aaron Stanford), Bobby (Dan Byrd) e Brenda (Emilie
De Ravin), attraversano il deserto californiano con la loro
roulotte Airstream. Ma durante una deviazione di percorso
subiscono un rocambolesco incidente che li costringe ad una
inattesa fermata in mezzo al nulla. L’ambiente si mostra
subito inospitale e minaccioso, diventando come in un’altra
opera similare, Wolf Creek, protagonista
assoluto dell’opera. In tutta la prima parte dell’opera
il regista costruisce una tensione latente e nello stesso
tempo opprimente di un ambiente costituito prevalentemente
di rocce frastagliate attraverso un uso emotivo della macchina
cinema: dettagli visivi, movimenti di macchina a ricreare
false (?) soggettive, suoni e colori accecanti. Un insieme
di elementi che puntano da una parte a definire in maniera
grossolana ma funzionale i caratteri dei personaggi in gioco,
dall’altra a creare una sorta di sospensione della narrazione
simile alla quiete che precede la tempesta. Tempesta che tarda
ad arrivare, ma quando si scatena produce effetti devastanti.
Se nel precedente Alta tensione Aja giocava con semplicità
premendo a fondo sin dall’inizio il pedale dell’acceleratore,
qui dimostra una inattesa maturità ed un equilibrio
nella gestione degli elementi narrativi ed emotivi che potrebbe
farci gridare alla nascita di un nuovo autore del cinema di
paura. L’accumulo di tensione, rabbia violenza inespressa
della prima parte, esplode nel lungo finale, quando i confini
tra giusto e sbagliato, vita e morte sono oramai pallidi ricordi.
Ma si tratta di una violenza quasi a sublimare un senso di
colpa incancellabile, un peccato originale di sangue e morte
che resta indelebile sulla coscienza della società
americana e non solo. Non importa più cosa è
giusto e cosa è sbagliato, l’importante è
sopravvivere alle proprie colpe come a quelle dell’istituto
sociale a cui volenti o nolenti apparteniamo.
[fabio melandri]
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