Dopo
Mine Vaganti di Ozpetek,
ecco un altro autore Salvatores che si lancia nella commedia
per rivitalizzare il mercato italiano preso d’assalto
dalle macchine schiacciasassi della stagione come Avatar
e New Moon.
La Colorado Film di Maurizio Totti e la O1 per la distribuzione
hanno pensato le cose in grande, investendo nel lancio
del film oltre 2 milioni di euro a fronte di un budget
di produzione tra i 5 e i 6 milioni di euro e lavorando
ad una campagna di marketing in larga scala, arrivando
a stampare 300 copie per tutto il territorio italiano.
All’incontro con la stampa si presentano tutti,
dal produttore al regista, dall’intero cast artistico
a quello tecnico, e sono tutti sorridenti, allegri e pieni
di energia, la stessa energia che si respirava sul set
e che presumibilmente farà la fortuna del film.
Nel suo nuovo film, ci sono
numerose e gustose citazioni tra cui spiccano anche quelle
musicali come la copertina dei Beatles di Abbey Road.
In realtà la citazione dei Beatles è stata
casuale e involontaria, sono icone che restano nella memoria
e che tornano nei momenti più opportuni. Fanno
parte del nostro bagaglio visivo. In realtà abbiamo
mischiato i Beatles con De Chirico, sfruttando la dimensione
metafisica dell’Ospedale Niguarda di Milano e così
i personaggi sembrano i Beatles che attraversano un quadro
di De Chirico. In quella scena siamo stati molto attenti
al colore, alla composizione del colore. Siccome le tapparelle
delle finestre dell’ospedale erano verdi, abbiamo
deciso di uniformare l’inquadratura scegliendo il
verde come colore dominante. E così ci siamo regolati
di conseguenza con tutto il resto del film. Il giallo
per la scena dell’incidente, il rosso per la sequenza
della cena e così via. Troppo spesso in Italia
si trascura la veste grafica dell’immagine e non
si distingue un colore dall’altro. Con Italo Petriccione
abbiamo trovato questa soluzione che ci piaceva e ci sembrava
adatta per la storia che dovevamo raccontare. C’è
una precisa unità cromatica e non solo della fotografia,
ma anche in accordo con i costumi e la scenografia, una
scelta estetica che dovrebbe essere più proseguita
nel cinema italiano, altrimenti si appiattisce tutto e
non c’è distinzione tra cinema e tv.
Come è stata presa
la decisione del bianco nero per la sequenza notturna?
Tutto è nato dall’alternanza dei tasti neri
e bianchi del pianoforte che mi facevano venire in mente
le guglie del Duomo di Milano e da lì siamo partiti.
Milano dall’alto con varie riprese aeree per poi
scendere al livello della strada, riprendendo i suoi abitanti.
Il bianco e nero è venuto naturale nel momento
in cui avevamo un lungo brano musicale che durava oltre
cinque minuti del concerto di Chopin. Era una scena complicata
e complessa. Non è facile tagliare un notturno
di Chopin e bisognava capire quale sarebbe stata la scelta
più adatta. Mentre tutto il resto del film è
finto, in cui domina il colore da tutte le parti, per
quella sequenza dovevamo mostrare la vita vera di Milano
di notte. Le persone che appaiono non sono attori, ma
sono presi dalla strada, senza nessuna preparazione, sono
i milanesi così come vivono di notte. Il bianco
e nero per contrapposizione doveva essere la realtà
da contrapporre alla finzione del resto del film. Volevo
cercare di staccare l’elemento realistico, e per
questo ho ripreso Milano dal basso, escludendo le strade,
perché le strade rappresentano la realtà.
Qual è il rapporto che ha con i suoi personaggi
e come è venuta fuori la scelta dell’happy
end?
I personaggi sono vittime delle proprie fobie fino a livelli
patologici, come Caterina ad esempio che ha paura di puzzare,
fino a negarsi il diritto ad amare qualcuno e ad essere
amata. Viviamo un particolare momento storico in cui abbiamo
escluso l’happy end dalle nostre vite. E più
in generale nessuno si preoccupa di essere felice, questo
perché ci hanno escluso la felicità come
diritto. In America questo è un diritto sancito
dalla Costituzione e penso che dovrebbe essere così
dappertutto. Il film affronta questa paura, abbiamo paura
degli altri, di quelli che ci circondano, perché
ci negano la felicità. Per il rapporto con i personaggi
sicuramente si tratta di qualcosa di molto pericoloso.
Luc Besson ad esempio di fare il regista per questo motivo
e ora è diventato un grande produttore. Si rischia
di confondere realtà e immaginazione, pensi al
personaggio tutto il tempo della lavorazione, per mesi
interi e finisci per impazzire se non riesci a staccarti
dalla materia di cui parli.
Ha tratto ispirazione da
Pirandello per questo esperimento di metacinema?
Il legame con Pirandello così come con Shakespeare
e Calderon de La Barca è sicuramente molto forte.
È un’epoca in cui tutto è stato già
scritto e raccontato e non c’è più
nulla da inventare. Sicuramente sono stati i nostri punti
di riferimento, anche perché la sfida era quella
di un triplo salto che lo spettatore doveva seguire senza
perdere di vista la commedia.
Cosa pensa delle nuove tecnologie,
le piacerebbe provare con l’animazione?
Mi piace sperimentare nuovi linguaggi per ogni film che
faccio. Sono rimasto folgorato da Up,
sembra un capolavoro di Bergman. Ma temo che i miei attori
non sarebbero tanto contenti se facessi un film soltanto
con l’animazione.
Quali sono le differenze
principali tra il film e la commedia da cui è tratto?
È stato un lavoro molto lungo anche perché
ho cominciato a lavorarci fin dalla fine delle riprese
di Come Dio comanda. Dopo
quel film avevo bisogno di cambiare e di passare al genere
della commedia, avevo visto lo spettacolo di Genovesi
a teatro e l’avevo trovata perfetta. L’ostacolo
principale era riuscire a rendere lo sguardo in macchina.
A teatro l’attore può recitare rivolgendosi
direttamente al pubblico mentre per il cinema è
un po’ più difficile e quando l’abbiamo
proposto ai produttori sapevamo che andavamo incontro
al sospetto e alla diffidenza, ma loro si fidavano e ci
hanno lasciato fare. Rispetto all’originale abbiamo
aggiunto la sequenza della barca, e questo perché
volevamo dare maggiore importanza al rapporto tra i personaggi
di Abatantuono e di Bentivoglio.
A cosa si deve la scelta dello stile anni sessanta che
permea tutto il film?
Ci siamo affidati alla colonna sonora di Simon & Garfunkel
e per Paul Simon è stata la prima volta dai tempi
del Laureato che la sua musica non finiva in un film.
È stata un’esperienza emozionante. Volevamo
ricreare quel clima di spensieratezza e di positività
degli anni sessanta in cui sono nato e cresciuto. Mi sono
rifatto alla mia adolescenza, ad un periodo d’oro
che stava attraversando il mondo, nella musica, nel cinema,
e più in generale nella società. La scelta
non è stata casuale e andava in quella direzione.
Nel finale abbiamo notato
un omaggio ai Soliti Sospetti, è stato casuale
o voluto?
Tutto il film è un continuo omaggio ai film che
amo e che ho amato e i Soliti sospetti
è uno di questi. Ma mentre per
I soliti sospetti si trattava della risoluzione
di un giallo, era all’interno di un genere, qui
ho usato quell’espediente per descrivere come funziona
la creatività, da cosa il personaggio prende ispirazione
per raccontare le sue storie.
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