Cosa succede
quando un ragazzino di sedici anni della tipica famiglia della
Milano bene decide di chiedere la mano ad una coetanea dalle
origini opposte, rappresentante a sua volta dell’altra
tipica famiglia italiana allegra e pasticciona, piena di difetti
ma dal cuore d’oro? Questo è il soggetto che
viene in mente a Ezio, uno sceneggiatore provetto di trentotto
anni erede di una fortuna non indifferente, che non avrebbe
bisogno di scrivere per vivere.
Come il single di Nick Hornby portato al cinema da Hugh Grant
in About a boy, che campava grazie
ai diritti di una canzoncina di Natale, anche Ezio deve il
suo benessere al dosatore per lavatrici, brevettato dal padre.
In Italia difficilmente i figli depongono i padri dagli scranni
del potere, ma piuttosto cercano di guadagnarne il più
possibile senza produrre nulla di nuovo. Ezio, sfaccendato
e disilluso gira in bicicletta in cerca di ispirazione in
una Milano d’estate surreale e a tinte unite per merito
della fotografia immaginifica di Italo Petriccione, finché
non incrocia sulla sua strada uno dei personaggi della commedia
che sta scrivendo: la madre della famiglia borghese e perbenista
che lo investe mandandolo in ospedale. A quel punto realtà
e immaginazione si confondono e si mischiano e lo spettatore
non sa più se quella che sta guardando è la
storia di Ezio o delle due famiglie milanesi e quale delle
due è inventata o realmente vissuta, seppure attraverso
il filtro della macchina da presa. Siamo dentro o fuori dallo
spettacolo? Ne siamo semplici osservatori o ne siamo i protagonisti
noi stessi? Questo è il trucco del cinema e più
in generale della rappresentazione fin dai tempi di Shakespeare
e Pirandello.
Grazie al tono da commedia, adottato da Genovesi prima e da
Salvatores ora, il passaggio è assolutamente indolore
e non genera nel pubblico alcun tipo di smarrimento o peggio
di ansia da mancanza di punti di riferimento.
Per sdebitarsi del danno, Anna invita a cena Ezio proprio
la sera in cui Filippo domanderà ufficialmente in sposa
Marta, davanti ai suoi genitori, scatenando equivoci a non
finire. Se per Tolstoj “tutte le famiglie felici si
assomigliano fra loro, ma le famiglie infelici sono infelici
a modo loro”, per Salvatores l’assunto diventa
un messaggio di speranza, in cui la felicità dovrebbe
essere un po’ all’americana un diritto sancito
dalla Costituzione. Mentre il matrimonio adolescenziale naufraga
ancor prima di vedere la luce per colpa della promessa sposa
che si rifiuta di legarsi ad un coetaneo che parla e si atteggia
come un quarantenne ma che in realtà non conosce nulla
della vita e del sesso, al contrario le due famiglie si avvicinano
per intraprendere un percorso di felicità comune. E
sarà allora l’amicizia virile, autentico valore
di tutta la poetica di Salvatores, a prevalere sull’illusione
e sulla finzione dei rapporti uomo donna.
Adattando una commedia di successo di Alessandro Genovesi
del Teatro degli Elfi di Milano, che fece da trampolino di
lancio negli Anni Ottanta allo stesso Salvatores e a tutta
una nuova generazione di autori e di comici, il regista cerca
di tornare alle origini puntando tutto sulla coppia già
collaudata Bentivoglio-Abatantuono e affidando al loro erede
ideale, Fabio De Luigi, il ruolo nevralgico di collante per
i migliori spunti comici del film. Ma è un palese tentativo
di rifarsi dopo gli ultimi insuccessi di Quo
vadis, baby? e Come Dio comanda.
Salvatores quindi ripiega sulla strada già battuta
di Turné e Marrakech
Express, inserendo i motivi che gli sono più
cari all’interno di un genere di facile presa.
Dalla nostalgia per un passato che non tornerà più,
gli anni sessanta della colonna sonora di Simon & Garfunkel
e dello stile scenografico, alla fuga verso un sud più
sognato che realmente raggiunto, Salvatores si costruisce
un mondo a sua immagine e somiglianza, rassicurante e protetto,
senza mai mettersi in gioco e confrontandosi con l’altro
da sé. Ne esce una commedia ben confezionata e tirata
a lucido tra il film natalizio di Aldo, Giovanni e Giacomo
e i duetti di Bentivoglio e Abatantuono che strappano ben
più di una risata. [matteo
cafiero]