Gli italiani
non lo fanno più da un pezzo. Spagnoli ed inglesi lo
fanno saltuariamente con alterni risultati. Agli americani
piace ri-farlo, ritornando ai tempi di quando lo facevano
ed anche bene. I tedeschi lo facevano quando gli incubi di
un senso di colpa non ancora tacitato dava loro coraggio,
ispirazione ed incubi. I francesi lo fanno, ci credono e gli
riesce pure bene.
Stiamo parlando, scalziamo subito maliziosi equivoci dalla
mente del lettore, del cinema horror. Un cinema basico, di
pancia, pura costruzione del terrore utilizzando i mezzi puri
e crudi dell’arte cinematografica, del racconto per
immagini. La trama è un puro pretesto, ma non sempre,
per una messa in scena che scandaglia i gangli tumorali delle
nostre paure per una analisi impietosa delle nostre debolezze,
insicurezze, fobie.
Dicevamo dei francesi. Dopo il fulminante esordio di Alexandre
Aja in Alta
Tensione seguito dal remake di Le
colline hanno gli occhi, registriamo la vitalità
ed il coraggio produttivo transalpino con una seconda opera
di due registi qui al debutto sul grande schermo: Xavier Palud
e David Moreau. Spiega quest’ultimo: “L’horror
non è il solo genere a cui siamo affezionati ma occupa
un posto significativo nella nostra cultura e, da cinefili,
è per noi puro divertimento. Il cinema degli anni 80
è quello che ci esalta di più. Molti ritengono
questo genere di film “minore”, ma non bisogna
dimenticare che è stato prodotto per intrattenere il
pubblico, onestamente e senza pretese: questi sono i film
che ci hanno portato a fare questo lavoro. Si tratta di titoli
molto realistici che partono da una base sociale credibile
per rivelare in fondo qualcosa di straordinario. Desideravamo
girare un film che terrorizzasse la gente che ama l’horror
e il thriller. Abbiamo allora indetto un breve “sondaggio”
chiedendo ai nostri amici cosa li spaventasse maggiormente.
Tutti ci hanno dato la stessa risposta: avere degli intrusi
in casa propria.”
La trama è semplice. Una grande casa isolata nella
periferia di Bucarest. Una coppia di giovani, Lucas e Clementine
che proprio in quella casa in mezzo alla foresta hanno costruito
il loro nido d’amore. Tutto procede tranquillo ma intuiamo
che è solo la quiete che precede la tempesta. Una notte,
strane presenze iniziano ad aggirarsi intorno all’edificio.
Qualcuno tenta di entrare nella casa. Gli scuri delle finestre
vengono improvvisamente chiuse dall’esterno. I due finiscono
per essere prigionieri del loro nido d'amore. Ma il peggio
deve ancora venire, perché le presenze riescono a penetrarvi
all’interno per un incubo senza fine. Non diremo altro
per non rovinare il piacere della paura, del puro terrore
che i due registi riescono a costruire attraverso una calibrata
ed a tratti insostenibile costruzione della suspence, incentrata
sul principio basico di negazione della visione. Percepiamo
la presenza di qualcosa/qualcuno, ma non la vediamo mai direttamente
se non di riflesso, attraverso dettagli fisici, le azioni
che compiono, i segni che lasciano. Chi sono, cosa vogliono,
perché lo fanno? Sono domande che lo spettatore non
fa in tempo a porsi travolto dal ritmo incalzante su cui è
imperniata la narrazione. E’ cinema tout-court. Una
fotografia sgranata ed imperfetta - unico neo della pellicola
- un montaggio sincopato, musica ridotta ai minimi termini
per evidenziare i rumori ed i respiri sempre più affannati
dei due giovani. La macchina da presa, puntata dritta in faccia
ai due protagonisti Olivia Bonamy e Michaël Cohen per
cogliere il loro terrore più profondo, si muove in
maniera nervosa sul campo diegetico, catapultando lo spettatore
all’interno della messa in scena, finendo per sentirsi
lui stesso braccato, circondato, minacciato da queste presenze.
Con uno dei finali più agghiaccianti che si ricordino,
il film proprio nei secondi finali compie uno scatto ulteriore,
trasformandosi da puro oggetto di entertainment ad analisi
sociologica di un malessere tanto diffuso quanto sotterraneo.
Da vedere e rivedere. [fabio
melandri]
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