Se Gomorra
e Il Divo hanno ottenuto gli scudi
della ribalta in quel di Cannes, ottenendo importanti riconoscimenti
di pubblico e di critica, un altro piccolo film italiano otteneva
apprezzamenti in territorio francese.
Si tratta de Il resto della notte,
opera seconda di quel Francesco Munzi messosi in evidenza
con il suo garbato e profondo Saimir,
uscito in Italia tre anni orsono, presentata nella sezione
Quinzaine des Relisateurs.
La diversità, la difficile amalgama di spinte sociali
e culturali differenti: Munzi ricalca i passi del suo primo
film, e va a raccontare una storia ambientata ai margini della
società italiana, sulla stretta linea di confine che
separa la piccola malavita straniera, ma anche italiana, e
la posizione agiata della classe alto borghese, simbolicamente
arroccata nella classica villa in collina.
L’abilità è innanzi tutto quella di raccontare
una storia, anzi più storie. Sono tre gli spaccati
di vita che si intersecano nella pellicola, tre diverse strade
con in comune un unico punto di arrivo. Il rumeno che si arrabatta
con piccoli “lavoretti”, tentando di offrire un
futuro migliore al proprio fratello minore, un italiano tossico
e disadattato, che ha come unici punti fermi il figlio e la
cocaina, e una famiglia benestante, che cela i propri problemi
dietro un’apparenza di lusso e ostentazione.
Il regista si discosta dalle tentazioni di una lettura politico-sociologica
del tema dell’immigrazione o della criminalità
organizzata, per concentrarsi sui personaggi, dei quali indaga
caratteri e sentimenti. Per farlo utilizza un registro da
molti definito “realismo astratto”. I suoi attori
parlano in lingua, sia essa straniera o dialettale, e le inquadrature,
pur rifuggendo il naturalismo, sono attaccate alla materialità
del reale e alle sue sfaccettature, mai edulcorate attraverso
un uso ingombrante della fotografia e delle luci.
Stilisticamente e formalmente un film di valore, che ha i
suoi pregi nella ricerca delle piccole cose, nel rifuggire
il parlare per metafora.
Purtuttavia il plot non sostiene adeguatamente l’impianto,
cadendo troppo spesso nel luogo comune, nella vicenda già
confezionata e sfornata quotidianamente dalla stampa, che
pur viene trattata delicatamente sotto altre prospettive.
Il retrogusto sgradevole dello stare assistendo a cose in
qualche modo già viste, già canonizzate dall’immaginario
collettivo, rimane, rendendo la pellicola un film si valido,
ma pur sempre un passo indietro rispetto all’anticonvenzionale
Saimir. [pietro
salvatori]