Incontriamo a Roma Francesco
Munzi, autore de Il resto della notte, uno dei quattro
film italiani presentati all’ultimo Festival di
Cannes. Munzi nasce a Roma nel 1969. Si laurea in Scienze
Politiche e nel 1998 si diploma in regia al Centro Sperimentale
di Cinematografia. E sordisce nel lungometraggio con
Saimir, film con il quale partecipa a decine di festival
nel mondo, ottenendo premi e ottime critiche. Il resto
della Notte è il suo secondo lungometraggio.
Nel film muoiono entrambi
i protagonisti, l’italiano e il rumeno. E’
un film a tesi?
Non è un film a tesi, non saprei cosa dire a
proposito, non era metafora di qualcosa di particolare.
Quasi tutti i proprietari di ville posseggono un’arma,
sono cose ormai all’ordine del giorno le sparatorie
tra aggressore e aggredito. Lo spettatore è libero
di fare il proprio viaggio all’interno del film.
Un viaggio da cui però nessuno ne esce illeso,
nè gli aggressori nè le vittime.
Non
ha paura di lettura politica?
Sicuramente sì. Quando ho iniziato a girare,
la questione rumena non era all’ordine del giorno,
mentre quando è uscito a Cannes era su tutte
le prime pagine, per cui ho paura di essere strumentalizzato.
E’ un film che spiazza sia la destra che la sinistra,
volevo restituire la complessità di situazioni
che spesso in tv vengono semplificate. Se smuove qualcosa
vuol dire che avremo raggiunto l’obiettivo.
Ma
nel caso venisse strumentalizzato da un certo tipo di
destra penserebbe lo stesso di aver raggiunto l’obiettivo?
Mi fa piacere che spiazzi, non che venga strumentalizzato.
Il film non ha l’ambizione di raccontare la comunità
rumena, non è un trattato di sociologia. E’
un film che parla di persone che sbagliano. Per me l’immigrazione
è una risorsa immensa, che ha però delle
zone d’ombra, perchè l’integrazione
in questo paese è ancora molto difficile.
Cosa
c’è prima del film e cosa c’è
dopo?
Domanda difficilissima, è già difficile
fare un’ora e mezza di film. Non esistono un prima
e un dopo. Cerco di mantenere un pò di distanza
nel corso della narrazione, poi alla fine mi avvicino
a Victor, l’unico personaggio che cambia in meglio,
matura attraverso il dolore.
Qual’è
il senso del titolo? Si può parlare di realismo
astratto, quasi vicino a quello di un poliziesco?
Nel titolo si cerca sempre di dare una suggestione.
Io parlo della notte della rapina, ma anche di una notte
d’Italia. Il resto della notte è ciò
che si lascia, ciò che rimane.
Quando cerco le location e faccio inquadrature cerco
sempre di evitare il naturalismo, le immagini sciatte,
che sono il contrario del realismo che implica uno sguardo.
Le storie di rapine sono vecchie come il mondo, l’intreccio
può assomigliare a quello di un poliziesco, anche
se i miei tentativi erano più in direzione del
seguire il personaggio di Victor, come già ho
detto, che acquista man mano consapevolezza, e adotto
il suo punto di vista.
Come
mai 4 anni per fare un film?
Saimir è stato faticoso
farlo, ho perso tanto tempo a farlo uscire e promuoverlo.
Questa volta ho avuto la possibilità di fare
subito il progetto, è stata colpa mia la lentezza.
Come giudica la tematica
dell’impegno nel cinema italiano?
Ci sono tanti registi che
hanno lavorato in disparte, ignorati, ma è anche
fisiologico, e ora piano piano emergono, si raccolgono
i frutti. La novità sono stati i premi a Cannes
di due film italiani entrambi impegnati. Ma c’è
soprattutto un ritorno del cinema, del linguaggio cinematografico.
Sulla carta Gomorra, un film scarno in napoletano stretto,
non lo sarebbe andato a vedere nessuno.