Durante
la prima guerra mondiale, i soldati tedeschi al fronte ammiravano
quelli inglesi per il loro coraggio. Erano dei leoni, ma disgraziatamente
erano guidati da agnelli, generali codardi e adulti opportunisti
che sprecavano quel che di meglio la giovinezza sapeva offrire.
Dopo sei anni di guerra prima contro il regime talebano a
Kabul e poi contro quello di Saddam Hussein in Irak, chi sono
i leoni e chi sono gli agnelli?
Robert Redford e lo sceneggiatore Matthew Michael Carnahan
già apprezzato per il copione di The
Kingdom ragionano su questa contrapposizione dagli
echi morali per certi versi simili a quella messa in scena
da Paul Haggis nel suo Nella
valle di Elah.
Mentre Haggis si interrogava sul paragone biblico di Davide
e Golia, Redford da buon liberal affronta i temi laici che
sono il pilastro della democrazia americana. E lo fa attraverso
tre storie parallele.
A Washington un senatore repubblicano dal sorriso perpetuo
e dallo sguardo cinico convoca nella sua sede una giornalista
dalle idee politiche opposte per illustrarle la nuova strategia
militare per salvare gli Stati Uniti dall'onta di una sconfitta
e per sconfiggere definitivamente il terrorismo e riportare
la pace nel mondo.
In Afghanistan due marines precipitano da un elicottero colpito
dall'artiglieria talebana e finiscono nelle montagne a difendersi
da una micidiale tormenta di neve e dagli attacchi dei ribelli
in attesa dei soccorsi.
Nell'università un professore di scienze politiche
di sinistra cerca di aprire gli occhi a uno studente e di
motivarlo ad impegnarsi di più nello studio e a cambiare
le cose in America e nel mondo, usando l'esempio di due ex
allievi che scelsero di arruolarsi invece che passare il resto
della vita a lamentarsi e basta.
L'impegno e la teoria. Stare seduti ad aspettare o uscire
di casa e agire, giudicare il mondo da una torre d'avorio
al riparo dalle intemperie, dalle cadute e dalle sconfitte
o sporcarsi le mani a costo di fallire.
Il cinema di Robert Redford nel solco della tradizione hollywoodiana
è tutto qui, all'insegna del pragmatismo, e sembra
dirci, se ha funzionato con me perché non potrebbe
funzionare con tutti. Più che un film quindi un dibattito.
Robert Redford regista si sacrifica per Robert Redford attore,
immobilizza il più possibile la macchina da presa,
la inchioda al pavimento e riempie lo schermo di primi piani
che si rivolgono allo spettatore per esporre le loro tesi.
Lo spettatore più che vedere, ascolta i ragionamenti
e secondo le intenzioni degli autori, al termine del film
dovrebbe uscire dalla sala e risolvere quello che l'amministrazione
americana e i governi occidentali non hanno risolto in sei
anni di guerra. In una delle battute più felici, Meryl
Streep ricorda che per sconfiggere il nazifascismo ce ne vollero
di meno, ignorando bontà sua tutte le differenze che
marcano questa guerra non solo da quella ma da qualsiasi altra.
In un film a tesi, l'errore più grossolano che si possa
commettere è sbilanciare tutto da una parte, caricare
di forza e motivazioni uno solo dei due punti di vista e indebolire
fino al ridicolo quello più scomodo che si vuole far
perdere. Ed è ancora più fastidioso e irritante
assistere ad un processo dove l'esito è scontato fin
dai primi fotogrammi e prevale una visione manichea della
realtà, soprattutto in un momento storico come questo
in cui i fantasmi dell'undici settembre non si sono dissolti
e i colpevoli e responsabili di quella strage non sono stati
ancora presi ma stanno spargendo il terrore in ogni angolo
del pianeta.
Redford solleva interrogativi potenti e finora poco battuti
dal cinema hollywoodiano e dimostra di essere più efficace
in quello che conosce e di essere al contrario più
superficiale e ingenuo nel materiale che presume di conoscere.
Il professore universitario e lo studente si confrontano in
una dialettica stimolante e travolgente, ed è raro
partecipare ad un dialogo così ben scritto e interpretato,
prova di quanto gli Stati Uniti diano importanza all'istruzione.
Mentre è assolutamente arrogante la rappresentazione
della politica a Washington. Tom Cruise è il politico
stereotipato che esce dalle prime pagine dei giornali, assetato
di potere che non guarda in faccia a nessuno, pur di diventare
presidente. Manipola la realtà e la usa per fini propagandistici,
mente spudoratamente e illude coloro che lo hanno eletto,
spacciandosi per paladino della libertà. Il giornalismo
ne esce con le ossa rotte senza possibilità di riscatto,
incapace di dire "Il re è nudo" come ai bei
tempi del Vietnam.
E il cinema in tutto ciò dove è finito? Redford
ci crede ancora quando racconta l'episodio dei due marines,
metafora dell'America, ostaggio delle sue paure e di Al Qaeda.
Attraverso un uso massiccio del flashback, il loro percorso
da studenti primi della classe a marines patriottici che pagano
con la loro vita le scelte di una nazione guerrafondaia non
dà risposte scontate e mette in discussione tutti i
discorsi pieni di belle parole parole del senatore e del professore
che lo spettatore è costretto a sorbirsi per oltre
due ore.
[matteo cafiero]