Se l’Italia
è malata, siamo tutti a rischio di contagio. Il virus sa come
essere insidioso e subdolo, conosce i punti deboli dell’uomo
perché lo scruta da lontano, ne ingrandisce l’immagine
con la lente dei suoi occhi artificiali, ne penetra a fondo i segreti
più reconditi con il solo intento di annientarli. Come la peste
di Bukowski, la febbre è quell’individuo che ti alita
sul collo, che conosce i tuoi pensieri, i tuoi sogni e ne distrugge
con arroganza il diritto d’esistere. Unico vaccino è
l’isolamento, il ritorno al proprio “io” originario
che gli altri hanno cercato, volontariamente o meno, di fare proprio.
L’ultimo film di Alessandro D’Alatri è un sincero
affresco di una povertà e di una bassezza che affliggono l’Italia
e gli italiani, una povertà d’animo che s’insinua
silenziosa in quegli ambienti dove le possibilità di agire
si riducono ad azioni di arbitraggio telecomandate. Ritorna, sotto
altre vesti, la viscida presenza di quel borghese piccolo piccolo,
con le sue melliflue adulazioni e servili ruffianerie. Ma è
solo un’ombra. Mario Bettini è il figlio sopravvissuto
di una generazione che riponeva nei figli sogni ed aspirazioni mancate,
che tentava di ottenere con ogni mezzo un posto di lavoro in un’epoca
di triste precariato. Mario Bettini è la rivincita dell’individuo
nei confronti di una società che ti modella a suo piacimento,
ti comprime in una forma e ti costringe al silenzio. Un silenzio complice,
un silenzio che non è mai innocente. In una piccola e garbata
città di provincia, D’Alatri mette in scena il suo teatro
di personaggi e tipi e lascia alzare il sipario su quegli aspetti
che rendono sterili tutti gli entusiasmi. Come può allora un
individuo cambiare il corso degli eventi, rompere quel silenzio ipocrita
che ha ingoiato allo stesso modo amici, genitori e colleghi di lavoro?
Agendo dall’interno, forse. Il giovane geometra comunale, un
bravissimo Fabio Volo, è l’uomo che oscilla perennemente
tra ciò che deve e ciò che dovrebbe, tra un obbligo
inconsapevolmente imposto dalla memoria di un padre morto e la personale
convinzione di non appartenere a quello stesso mondo. L’incontro
con la bella e spontanea Linda porterà Mario in una dimensione
che credeva perduta, una dimensione alla quale aveva consapevolmente
rinunciato per recitare un ruolo, quello del lavoratore che riceve
ordini dall’alto e del figlio che asseconda il desiderio di
una madre invadente. E da quell’incontro la consapevolezza,
la presa di coscienza di una società che arriva a calpestare
i propri morti per questioni di profitto ed interesse; di un mondo
sporco ed ormai contaminato dalla febbre: quella dell’invidia.
D’Alatri confeziona un buon prodotto, riuscendo a non cadere
in moralismi e teorie politiche pur nella rappresentazione fin troppo
evidente di un messaggio che ha come scopo quello di arrivare a tutti.
Ottimi gli interpreti, belle le riprese della campagna grezza contrapposta
alla rigida forma di una società che conserva sempre la faccia,
qualsiasi cosa si celi sotto di essa. Una commedia intelligente che
a tratti ripercorre la strada della memoria, di un’Italia fatta
di poeti e scrittori, di un’eredità che sembra non averci
lasciato niente. Ma La febbre è
anche una scintilla di ottimismo che lascia all’individuo la
capacità di cambiare se stesso dall’esterno, lontano
da quel campo da calcio dove l’azione è solo parte di
un complicato ingranaggio. [giulia rastelli]
La febbre
come stato di alterazione fisica, segno tangibile e misurabile di
una reazione dei nostri anticorpi ad un attacco virale esterno.
La febbre dell’invidia, dell’arroganza del potere, della
perdita di valori, di piccole e grandi gelosie è quella che
attanaglia il paese Italia. Gli unici anticorpi sono la realizzazione
dei nostri sogni, dei nostri desideri, o almeno il tentativo convinto
intrapreso per realizzarli. La società castrante con le sue
aspettative private (genitori, amici, colleghi) debilitano l’uomo,
l’individuo, il cittadino costretto a barcamenarsi per vivere
una vita che è più frutto di una serie di desideri altrui
che non convinzioni personali.
Mario, geometra comunale per volontà paterna, vive una vita
di provincia basata sui sogni e desideri di una madre invadente ed
onnipresente, amici ambiziosi ma inetti, colleghi volenterosi ma sottomessi
ad un arrogante e prepotente capo ufficio. Gli schemi di questa sua
vita noiosa e regolamentata vengono rotti un giorno dalla comparsa
di Linda, laureanda in lettere, amante della poesia, dei cani e della
vita campestre, che sconquassa lo status quo portando quel livello
minimo di felicità nella vita di Mario.
Seguire i propri desideri, le proprie aspirazioni, diventare fautori
della propria vita, imprenditori di se stessi è il messaggio
neanche troppo velato della nuova pellicola di Alessandro D’Alatri,
qui alla sua seconda collaborazione con Fabio Volo. Un film che ha
l’obiettivo di dare una scossa ad un paese colpito da una febbre
persistente, non grave ma debilitante. Un grido forte di ottimismo
puro chiuso in una confezione elegante nelle immagini, con le musiche
melanconiche dei Negramaro, le recitazioni sanguigne e convincenti
da parte di un cast composto essenzialmente da giovani e maturi talenti.
Se difetti troviamo in questa pellicola, risiedono in un uso a volte
sterile degli effetti speciali – soprattutto in alcuni raccordi
- e nella volontà da parte del regista di rendere assolutamente
troppo manifesto ed evidente il messaggio del film. La sequenza con
il Presidente della Repubblica che prende una birra nel locale di
Mario nell’economia dell’opera e del messaggio che si
voleva lanciare risulta inutile, appesantendo oltremodo il racconto
con un “pistolotto” di cui non se ne sentiva assolutamente
il bisogno. Il dono del sottinteso purtroppo manca nel giovane cinema
italiano, anche nel più ambizioso. Peccati veniali che probabilmente
verranno corretti nel tempo quando dall’ “invettiva”
propositiva si passerà alla riflessione tematica e probabilmente,
visti i tempi, al rimpianto per ciò che poteva essere ed invece
non è stato.[fabio melandri]