20.000
le donne violentate durante la guerra civile che infiammò
i Balcani tra il 1992 ed il 1995. Ma sicuramente il numero
reale è molto, troppo più alto. Donne che poi
scelsero di abortire, o abbandonare, o allevare con amore
inviolato, il frutto di quella violenza. Donne stuprate che
ancora oggi a fatica vengono riconosciute vittime civili di
guerra; donne costrette a vivere nella paura di imbattersi
nel proprio carnefice, che vive tranquillo la propria vitacome
se nulla fosse successo; donne che si aggirano come anime
dannate per le strade di Sarajevo, città martire e
capitale della Bosnia-Erzegovina, a Grbavica, quartiere periferico
della capitale dove vive, ma meglio sarebbe dire sopravvive,
Esma.
Esma ha una figlia di 12 anni, Sara, cresciuta con il mito
paterno del martire di guerra, ma in realtà frutto
della violenza di un “cetnico” – come vengono
definiti in maniera dispregiativa i serbi in Bosnia -. Ma
se da un gesto di violenza può nascere un gesto di
amore, se da odio, disgusto e disperazione può nascere
speranza, l’uomo dopo tanta barbarie riacquista un “minimo”
di umanità.
Umanità che pervade la vita di Esma, una misuratissima
Mirjana Karanovic (attrice serba), nella sua lotta contro
gli incubi di un passato troppo recente che emerge per via
traverse come cicatrici sul corpo o il terrore che riempie
gli occhi della donna in più di un occasione, non capendone
il motivo all’inizio ma intuendone la dimensione in
seguito. Una lotta contro una verità a cui la figlia
in modo drammatico vuole giungere e verso cui la madre tende
di proteggere. Ma per sapere dove andiamo, bisogna sapere
da dove veniamo, e lo svelamento del “segreto di Esma”
sarà inevitabile ed in qualche modo catartico.
Il tema è importante ed affrontato in maniera volutamente
anti-spettacolare ed anti-emozionale. Ma è soprattutto
in questa seconda affermazione che risiede l’incompiutezza
dell’opera. Il film infatti risulta freddo, asettico,
incapace di coinvolgere emotivamente lo spettatore puntando
molto sul non detto quando un minimo di esplicitazione sarebbe
stato necessario per aggirare alcuni passaggi risultanti ermetico
e poco comprensivi.
Dice la regista Jasmila Zbanic, presente a Roma per accompagnare
l’uscita del film, vincitore dell’Orso d’Oro
all’ultimo Festival del Cinema di Berlino: “Ho
iniziato a pensare alla storia quando ebbi il mio primo figlio.
Rimasi molto colpita dalla violenza che si scatenò
in Bosnia dopo il 1992. Mio figlio mi ha cambiato letteralmente
la vita ed ho iniziato a pensare come dovevano sentirsi quelle
donne che avevano avuto figli non desideravano. Volevo trovare
un modo per superare questi momenti di violenza. Quello che
è stato distrutto non poteva che essere ricostruito
che con un gesto di amore. Un amore molto complesso, multidirezionale,
sporco ma capace di coinvolgere diverse sfere ed ambiti affettivi.”
Il film esce “patrocinato” da Amnesty International,
che da alcuni anni accompagna pellicole che hanno come punto
focale i diritti umani (da Hotel Rwanda
a Paradise Now, da La
vita segreta delle parole a Water,
sino a The Road To Guantanamo)
e parte da qui la sua corsa verso la nomination al Premio
Oscar. Il film è il candidato ufficiale della Bosnia
Erzegovina, in un percorso dove l’importante non è
vincere ma partecipare, augurandoci che la sua eventuale partecipazione
alla notte degli Oscar smuova le distribuzioni e permetta
la sua diffusione anche in Serbia, paese dove è stato
fortemente boicottato.
[fabio melandri]
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