Marjane Satrapi fumettista e
illustratrice iraniana, è assurta agli onori
della cronaca mondiale grazie alla trasposizione cinematografica
del suo libro “Persepolis, candidato agli Oscar
2008 come miglior film d’animazione. A marzo ha
preso parte alla “Lezione di Giornalismo”
all’Auditorium in Roma, rispondendo a varie domande:
dalla nascita del suo fumetto alla mancata premiazione
americana, dal percorso professionale al rapporto con
la tecnologia.
Il libro Persepolis è
stato scritto nel 2000. Dopo l’enorme successo
letterario è diventato un lungometraggio premiato
a Cannes e candidato all’Academy Awards. Quale
differenza pensa ci sia tra il fumetto e il film d’animazione?
Sono due mezzi d’espressione opposti. Nel fumetto
domina lo spazio, potendosi estendere su più
pagine. Ma non si deve confondere con lo story board,
solo un passaggio verso la realizzazione del film. Con
il fumetto posso attivare l’attenzione del lettore,
disegnare i movimenti della vita e dell'anima, come
una bisessuale della cultura. Al cinema, invece, lo
spettatore è passivo: sono attori, suono e movimento
a fare tutto. In sintesi sono lavori diversi, che danno
risultati diversi.
Il film d’animazione
è prodotto dalla Sony. Ci sono stati dei condizionamenti?
Quando ho firmato il contratto era presente anche la
produttrice dei film di Steven Spielberg: ho preteso
che venisse tolta la clausola che dava la possibilità
alla Sony di applicare la censura. Non ho accettato
compromessi per realizzarlo, è venuto proprio
come volevo. Dopotutto sono andata via dall’Iran
per evitare censure…
Dall’Iran agli Oscar,
passando per la Francia. Come è stato, da autrice
di fumetti, venire catapultata in America lo scorso
24 febbraio 2008?
E’ successo tutto alla fine del mio percorso fumettistico.
Dal libro siamo passati al film, con il presupposto
fondamentale che avessi carta bianca e che non fosse
una semplice trasposizione, ma un vero e proprio adattamento.
Mentre assieme a Vincent Paronnaud, (fumettista francese
underground, ndr) realizzavo Persepolis, ho continuato
a rispondere a domande sull’evoluzione artistica
e personale della storia. Questo ha fatto sì
che, giunta all’Academy Awards, fossi già
stanca e svuotata di energie. A Cannes, invece, ti senti
potente, un dio sceso in terra: tutto un altro mondo.
Se dovesse paragonare
l’ambiente che circonda la famosa statuetta a
qualcosa in particolare, cosa sarebbe?
La plastica, gli Oscar sono un mondo fatto di plastica:
tutto è enorme e si ha la netta sensazione che
tutto sia già deciso: è fondamentale la
promozione, la pubblicità che si fa di un prodotto.
Quindi maggiori sono i soldi a disposizione, maggiori
sono le possibilità di vincere. Confidavo nello
sciopero degli sceneggiatori, in modo che saltasse la
serata, ma è andata male.
Il lungometraggio è
stato presentato in 34 Paesi. L’accoglienza è
stata sempre la stessa?
In Europa dell’Est c’è stata una
forte identificazione legata al regime comunista. Ma
a parte lì, in genere le persone hanno colto
il lato umano della storia: nel film come nel fumetto
racconto la mia crescita umana, tra Iran, Austria e
Parigi. Credo che il confronto più difficile,
però, sia stato in Giappone: non ho mai visto
un posto così diverso da qualsiasi altro. Prima
di entrare alla proiezione mi è stato detto:
“Sia sicura che il pubblico piangerà molto,
ma non riderà. Il riso si può controllare,
il pianto no”. Questa constatazione mi ha spaventata:
non ti guardano negli occhi quando ti parlano…
Non mi sentivo a mio agio. La lingua poi peggiora la
situazione: non capivo niente, persino il tono della
voce ti lascia spaesata, senza riferimenti.
Cosa le piace dell’Oriente?
Di sicuro il cinema. È stato un regista giapponese
a cambiarmi la vita. A soli otto anni ho visto Rashomon
di Akira Kurosawa (1950), che ha dato un impronta indelebile
al mio modo di interpretare la vita. Il film è
ambientato nel Giappone medievale: un boscaiolo, un
monaco e un passante si fermano a parlare di un caso
di omicidio avvenuto qualche tempo prima. Le versioni
sono una opposta all’altra, eppure tutte vere.
Ho capito che non abbiamo il monopolio su niente. Bisogna
guardare la vita da più prospettive, chiedendoci
che cosa sta pensando l’altro. Io per prima l’ho
fatto, sposando uno svedese!
Come è stato accolto
Persepolis nel suo Paese?
So che prima degli Oscar sono state organizzate due
proiezioni per 70 persone e che sono state censurate
dodici sequenze, per ragioni sessuali. Un giornale diceva
persino che il mio film non è obiettivo. Da tempo
sono in vendita copie pirata, doppiate in persiano,
a soli due dollari! Per il resto, non conosco le reazioni
dei giovani: so quello che mi raccontano i parenti,
gli amici, ma sono visioni parziali.
In che modo ha scoperto
di essere portata per il disegno?
Tutti i bambini del mondo disegnano, fino ai dieci anni.
Poi avviene una selezione naturale e la maggioranza
smette: il sistema scolastico si rifà solo a
scrittori, poeti e letterati dimenticando il disegno,
che è il primo linguaggio usato dall’uomo.
Da adulta mi sono appassionata ai libri di Art Spiegelman,
che non definirei mai con il termine Graphic novel.
Perché? Secondo
lei Persepolis non è Graphic novel?
Odio quel termine, lo considero un escamotage borghese.
È una definizione creata ad hoc dalle case editrici,
solo perché la parola fumetto faceva pensare
a letture per bambini e i volumi con i disegni non si
vendevano.
È dal 2000 che
presenta, con diverse forme, Persepolis in giro per
il mondo. Cosa pensa di fare ora?
Fermarmi per un po’, devo fare altro, magari dipingere,
ma prima di tutto devo ricaricarmi, mi sento svuotata.
Ho un nuovo progetto cinematografico con Vincent, ma
ora devo nutrirmi. Il mio fine non è produrre,
ma amare quello che faccio. Diventa possibile solo avendo
nuova linfa.