INTERVISTA
A MARJANE SATRAPI (co-regista,
co-sceneggiatrice ed
autrice del fumetto)
Marjane
Satrapi è nata nel 1969. E’ cresciuta a Teheran,
dove ha frequentato la Scuola Francese e ha proseguito
gli studi a Vienna, prima di stabilirsi in Francia nel
1994. A Parigi, alcuni colleghi disegnatori l’hanno
introdotta all’Atelier des Vosges, studio d’arte
che raccoglieva i migliori fumettisti contemporanei.
Nel suo primo romanzo a fumetti, Persepolis 1, pubblicato
in Francia da L’Association nel novembre 2000, Marjane
ha raccontato la storia dei primi dieci anni della sua
vita, fino al rovesciamento del regime dello Scià
e allo scoppio della guerra Iraq-Iran. In Persepolis 2,
pubblicato nell’ottobre 2001, racconta la guerra
Iraq-Iran e gli anni della sua adolescenza fino alla sua
partenza per Vienna, all’età di 14 anni.
In Persepolis 3 e Persepolis 4 descrive il suo esilio
in Austria e il ritorno in Iran. In seguito, ha pubblicato
Taglia e cuci (Broderies) e Pollo alle prugne (Poulet
aux Prunes ). Persepolis, scritto e diretto con Vincent
Paronnaud, è il suo primo lungometraggio.
Ha
tratto un film dal suo romanzo a fumetti perché
aveva l’impressione che la storia non fosse ancora
conclusa?
Credo che sia stata la mia collaborazione con Vincent
(Paronnaud) a rendere possibile questo film. Quando i
miei romanzi a fumetti sono stati pubblicati hanno avuto
subito successo, e ho ricevuto diverse offerte per farne
un adattamento, soprattutto dopo l’uscita negli
Stati Uniti. Mi hanno addirittura proposto progetti come
una serie-tv alla Beverly Hills 90210, e un film con Jennifer
Lopez nel ruolo di mia madre e Brad Pitt nel ruolo di
mio padre – cose del genere! Assurdo.
Per la verità, erano passati quattro anni da quando
avevo scritto e disegnato Persepolis, e consideravo chiuso
il discorso. Ma poi, parlando del progetto cinematografico
con Vincent, ho capito che oltre ad avere l’opportunità
di lavorare con lui, avrei potuto cimentarmi in qualcosa
di completamente nuovo. Dopo aver scritto romanzi a fumetti,
libri per bambini, strisce di fumetti per quotidiani,
eccetera, mi sembrava di essere entrata in una fase di
transizione. Non volevo fare un film da sola, e sentivo
che l’unico con cui avrei potuto farlo era Vincent.
Lui ha aderito subito, entusiasta quanto me di affrontare
questa sfida. Ho capito che ci saremmo divertiti. A volte
sono le piccole cose, a portare a una decisione. Siccome
già conoscevo Marc-Antoine Robert (produttore),
abbiamo cominciato a lavorare insieme. Tutto qui!
Sapeva
dall’inizio che sarebbe stato un film di animazione,
e non di azione dal vivo?
Sì. Pensavo che l’azione dal vivo non avrebbe
avuto lo stesso carattere di universalità. Sarebbe
diventata una storia di persone che vivono in un paese
lontano, e che non ci somigliano affatto. Nel migliore
dei casi, sarebbe stata una storia esotica, e nel peggiore
una storia del “terzo mondo”. I libri sono
stati un successo in tutto il mondo perché i disegni
erano astratti, in bianco e nero. Io credo che questo
abbia aiutato i lettori ad avvicinarsi a questa storia,
che potrebbe essere ambientata in Cina, Israele, Cile
o Corea, perché è una storia universale.
Persepolis ha anche momenti onirici, e i disegni aiutano
a dare continuità e coerenza alla storia; ma anche
il bianco e nero (ho sempre paura che il colore possa
diventare volgare) è servito in questo senso, come
pure l’astrazione dell’ambientazione e degli
sfondi. Vincent ed io pensavamo che proprio questo rendesse
la sfida ancora più intrigante e avvincente, da
un punto di vista artistico, estetico.
Che
cosa l’ha spinta a chiedere a Paronnaud di dividere
lo studio con lei, 6 anni fa?
All’epoca, non lo conoscevo ancora di persona. Avevo
visto i suoi disegni a casa di un amico e avevo pensato:
“Dovresti tagliargli le dita, a questo qui, per
impedirgli di disegnare!” Il suo lavoro era semplicemente
fantastico. C’è qualcosa di totalmente esagerato
e eccessivo, nel suo stile, e al tempo stesso di nobile
e dignitoso.
Avevo anche visto due suoi corti che aveva realizzato
con Cizo (Lyonnel Mathieu), O’ Boy, What Nice Legs
e Raging Blues, che mi erano piaciuti molto.
In
che modo vi completate a vicenda?
Quando dividevamo lo stesso studio, disegnavamo insieme.
Abbiamo stili diversi, che però si combinano perfettamente.
Veniamo da paesi, culture e ambienti completamente diversi,
ma siamo sempre stati sulla stessa lunghezza d’onda.
Si potrebbe dire che insieme abbiamo smontato il concetto
di “scontro di civiltà”. Io sono una
persona espansiva, lui è piuttosto introverso,
ma quando si tratta di disegnare, di lavorare insieme,
la situazione si rovescia. Nei tre anni in cui abbiamo
lavorato insieme senza sosta, non abbiamo avuto un solo
litigio, anche se siamo stati sempre molto onesti l’uno
con l’altro.
Ha
avuto difficoltà a scegliere il materiale dei quattro
romanzi che voleva inserire nel film?
Scrivendo i libri, ho dovuto ripercorrere 16 anni della
mia vita, comprese le cose che avrei decisamente preferito
dimenticare. E’ stato un processo molto doloroso.
Avevo il terrore di cominciare a scrivere la sceneggiatura,
e non avrei potuto farlo da sola. La parte più
difficile è stato cominciare, e prendere le distanze
dalla storia in prima persona. Abbiamo dovuto ripartire
da zero per creare qualcosa di diverso, ma con lo stesso
materiale. E’ un lavoro a sé stante: non
aveva senso filmare una sequenza di strisce. La gente
pensa che un romanzo a fumetti sia come lo storyboard
di un film, ma non è affatto così. Nel romanzo
a fumetti, il rapporto tra lo scrittore e il lettore è
partecipativo. Nel cinema, il pubblico è passivo
– perché un film è fatto di movimento,
sonoro, musica, quindi la struttura narrativa e il contenuto
sono molto diversi.
Vi
siete trovati d’accordo fin dall’inizio, su
quello che doveva essere lo stile visuale del film?
Sì, credo che potrebbe essere definito “realismo
stilizzato”, perché volevamo che il disegno
fosse assolutamente aderente alla realtà, non come
un cartone animato. Quindi, a differenza di quanto avviene
in un cartone, non avevamo grandi margini in fatto di
espressioni facciali e di movimento. E’ quello che
ho cercato di trasmettere ai disegnatori e agli animatori.
Io sono sempre stata ossessionata dal neorealismo italiano
e dall’espressionismo tedesco, e alla fine ho capito
perché: sono scuole di cinema post-bellico. Nella
Germania del dopo-seconda guerra mondiale, l’economia
era così devastata che i cineasti non potevano
permettersi di girare in esterni, e giravano in studio
usando atmosfere e forme geometriche di grande impatto
visivo. Nell’Italia del dopoguerra la situazione
era la stessa, ma la soluzione adottata inversa: per mancanza
di soldi, si giravano i film per le strade, e con attori
sconosciuti. In entrambe queste due scuole, però,
trovi quel tipo di speranza di chi ha vissuto una guerra
e una grande disperazione. Io stessa vengo da una scuola
post-bellica, avendo vissuto gli 8 anni della guerra Iraq/Iran.
Il film è una combinazione di cose diverse - l’espressionismo
tedesco e il neo-realismo italiano. Propone scene estremamente
crude e realistiche, in un contesto estremamente stilizzato,
con immagini che a volte sfiorano l’astratto. Siamo
stati anche influenzati da alcuni elementi di film che
abbiamo amato entrambi - come il ritmo serrato del film
di Scorsese Quei bravi ragazzi .
Quando
è arrivato il momento delle riprese, come vi siete
divisi il lavoro, con Vincent e il direttore artistico
Marc Jousset?
Avevamo bisogno di qualcuno che avesse una visione d’insieme,
qualcuno in grado di supervisionare tutte le fasi delle
riprese. Vincent ha proposto Marc Jousset, perché
aveva lavorato con lui in Raging Blues. Marc era l’unico
che capisse che cosa volevamo fare. Io ho scritto la trama,
e poi con Vincent abbiamo scritto e discusso la sceneggiatura.
Dopodiché, Vincent si è occupato delle scenografie,
delle riprese vere e proprie, dei materiali di scena,
dei personaggi e di quello che succedeva all’interno
di ogni singola scena. Comunque, ognuno di noi poteva
intervenire in tutte le fasi delle riprese. Ora, faccio
fatica a distinguere dove comincia il suo lavoro e dove
finisce il mio, e viceversa. Ci siamo completati, in poche
parole.
Si
tratta di un film con molti personaggi…
600 diversi personaggi… è una cosa piuttosto
insolita! Li ho disegnati tutti io, di fronte e di profilo.
Dopodiché, disegnatori e animatori li hanno disegnati
da tutte le angolazioni, sviluppando espressioni facciali
e movimenti. Per aiutarli, mi sono fatta riprendere mentre
recitavo le scene. E’ stata la chiave per mantenere
intatta l’emozione, e per trovare il giusto equilibrio
tra sobrietà e fantasia. Ho avuto anche il compito
ingrato di coreografare la scena di “Eye of the
Tiger”, il brano tratto dal film Rocky…
E’
stato difficile, per lei, vedere altri disegnatori interpretare
i suoi disegni e disegnare tante volte la sua faccia?
E’ una sensazione strana. Un tuo disegno è
come un figlio tuo, e all’improvviso scopri che
è di tutti! Non hanno reinterpretato solo i miei
disegni e i miei personaggi, ma anche la mia faccia e
la mia storia. A differenza di Vincent, io avevo sempre
lavorato da sola, avevo perfino il mio angolino, nello
studio, quindi potete immaginare come mi sono sentita
quando ho visto la mia faccia dappertutto - in formato
piccolo, medio e grande; bambina, adolescente e adulta;
di fronte, di profilo, di spalle; che rido, che vomito,
che piango, ecc…. Era una cosa insopportabile! Dovevo
ripetermi. “E’ solo un personaggio.”
E’ stato lo stesso per gli altri personaggi, perché
anche le loro storie sono vere. Mia nonna è esistita
veramente, è vissuta ed è morta, come pure
mio zio. Ma non potevo farmi prendere dall’emozione,
o avrei reso la vita impossibile a tutti. Se i disegnatori
mi avessero vista in lacrime, non avrebbero potuto continuare
a fare il loro lavoro. Dovevano sentirsi liberi per dare
il meglio di sé, quindi non ho avuto altra scelta
che parlare di me e dei miei cari come se fossero personaggi
di fantasia: “Marjane fa questo, sua nonna è
un tipo così...” - altrimenti sarebbe stato
impossibile. Questo non significa che a volte non fossi
travolta dall’emozione (soprattutto quando disegnavano
i miei genitori). La storia è diventata un’opera
di fantasia solo dopo la stesura della sceneggiatura.
Non ero più esattamente io, eppure, paradossalmente,
ero ancora io….
Perché
ha scelto Chiara Mastroianni per la sua voce? (Chiara
Mastroianni, nella versione originale del film, presta
la sua voce alla madre di Marjane - NdT)
Volevamo registrare le voci prima delle riprese, in modo
che l’animazione, i movimenti e le espressioni facciali
potessero corrispondere al dialogo e alla recitazione
degli attori. Il primo nome a cui abbiamo pensato è
stato quello di Danielle Darrieux, per il ruolo di mia
nonna. Era l’unica che potesse renderle giustizia
– è spiritosa, intelligente e piena di carattere.
Adora divertirsi e non ha paura di misurarsi con l’assurdo
di certe situazioni.
Per la voce di mia madre sognavo Catherine Deneuve. Quando
vivevo in Iran, i due attori francesi più famosi
erano Carherine Deneuve e Alain Delon. Lei era perfetta
per la parte. Per il numero speciale di Vogue che aveva
curato anni fa, aveva scelto una ventina di artisti, e
fra quelli c’ero anch’io. Era stato un grande
onore. Quando poi le ho chiesto di prestare la sua voce,
ha detto subito di sì. Devo dire che sono rimasta
molto colpita quando l’ho diretta e ho recitato
con lei. A un certo punto della sceneggiatura io dovevo
dire la battuta: “Le donne come te… voglio
solo scoparmele contro un muro e poi buttarle nella spazzatura”.
Per fortuna, è stato più facile dopo che
ho mandato giù un paio di bicchieri di cognac!
Solo dopo aver scelto Chiara, mi sono resa conto che stavo
per aggiungere un altro capitolo a una grande epopea cinematografica,
perché Catherine e Danielle avevano già
interpretato madre e figlia in diverse occasioni.
Per quanto riguarda Chiara, lei aveva sentito parlare
del film da sua madre e mi aveva chiamato chiedendomi
di farle fare un provino, dopo il quale ci siamo subito
trovate in sintonia. Adoro la sua voce, il suo talento,
la sua personalità, la sua generosità. Abbiamo
lavorato sodo per due mesi… E’ una stakanovista
e una perfezionista, come Vincent e me. Ha seguito ogni
fase della realizzazione del film e spesso passava in
studio a trovarci.
Qual
è stato il momento più bello di tutta questa
esperienza?
La prima proiezione per tutta la troupe, in un cinema
degli Champs-Elysées. Alla fine ero in lacrime,
come tutti gli altri.
L’Iran
è ancora oggi sulle prime pagine dei giornali.
Anche se vorrebbe che il film avesse un carattere universale,
non può impedire alla gente di vederlo in questa
luce…
Vero. Anche se ai miei occhi, la parte più esotica
della storia si svolge a Vienna. Il film non dà
giudizi, non dice “questo è giusto, questo
è sbagliato”, illustra solo i tanti risvolti
di una situazione. Non è un film orientato politicamente,
che vuole schierarsi. E’ prima di tutto e soprattutto
un film che racconta il mio amore per la mia famiglia.
Comunque, se il pubblico occidentale imparerà a
considerare gli iraniani esseri umani come tutti gli altri,
e non nozioni astratte come “fondamentalisti islamici”,
“terroristi” o “l’Asse del Male”,
allora sentirò di aver fatto qualcosa di buono.
Non dimentichiamo che le prime vittime del fondamentalismo
sono gli stessi iraniani.
Le
manca l’Iran?
Ma certo. E’ il mio paese e lo sarà sempre.
Se fossi un uomo, direi che l’Iran è mia
madre, e la Francia mia moglie. Ovviamente, non posso
dimenticare tutti gli anni in cui mi sono svegliata guardando
una montagna innevata alta più di cinquemila metri,
che dominava Teheran e la mia vita. E’ difficile
pensare che non potrò vederla mai più. Mi
manca. D’altronde, ho la vita che volevo. Abito
a Parigi, che è una delle città più
belle del mondo, con l’uomo che amo, e sono pagata
per fare quello che mi piace fare. Per rispetto verso
quelli che sono rimasti lì, che condividono le
mie idee ma non possono esprimerle, troverei inappropriato
e di cattivo gusto lamentarmi.
Se mi lasciassi andare alla disperazione, avrei perso
tutto. Quindi, fino all’ultimo momento, terrò
la testa alta e continuerò a ridere, non riusciranno
a distruggermi. Finchè sei vivo, puoi protestare
e gridare, ma la risata è l’arma più
sovversiva di tutte. |
INTERVISTA
A VINCENT PARONNAUD (co-regista e co-sceneggiatore)
Vincent
Paronnaud, alias Winshluss, è nato nel 1970 a La
Rochelle. E’ uno dei maggiori fumettisti indipendenti
di lingua francese.
Insieme al suo amico e collaboratore Cizo ha inventato
il personaggio di “Monsieur Ferraille”, figura
emblematica della rivista Ferraille Illustré, che
ha diretto con Cizo e Felder.
Tra i progetti che ha realizzato da solo ricordiamo i
fumetti Super Négra (1999) e Welcome to the Death
Club and Pat Boon – Happy End (2001). Si è
imposto all’attenzione del grande pubblico con due
candidature al Festival Internazionale del Fumetto di
Angoulême - con Smart Monkey nel 2004, e Wizz and
Buzz (con Cizo) nel 2007. Winshluss e Cizo hanno anche
firmato insieme la regia di due corti di animazione: O’
BOY, WHAT NICE LEGS (B/N, 1’, 2004) e RAGING BLUES
(B/N, 6’, 2003). Con Marjane Satrapi, Paronnaud
ha scritto e diretto Persepolis, che è il suo primo
lungometraggio.
Ricorda
il suo primo incontro con Marjane Satrapi?
Sei anni fa mi ha chiesto di dividere con lei il suo studio.
Avevo sentito parlare di Marjane, perché già
cominciava ad avere un nome. All’inizio ero un po’
diffidente, ma ho accettato la sua proposta, anche se
con qualche riserva.
Perché?
Sono diffidente di natura! Per di più, quando mi
ha chiamato, anche se non ci eravamo mai parlati né
incontrati di persona, mi era sembrata eccessivamente
entusiasta!
Che
cosa aveva fatto, a livello professionale, prima di allora?
Dopo aver lasciato la scuola, a 17 anni, mi sono cimentato
in campi diversi – disegno, musica, eccetera. Poi
ho cominciato a pubblicare romanzi a fumetti [con lo pseudonimo
di Winshluss], a scrivere storyboard seriali, e a lavorare
a corti di animazione.
Quando
ha letto la serie Persepolis, qual è stata la sua
reazione?
Stupefatta. Ero nel nostro studio, quando Marjane stava
ultimando il secondo volume. All’inizio, avevo qualche
perplessità riguardo allo stile “etnico”
e un po’ infantile che, secondo la stampa, caratterizzavano
il suo lavoro. In realtà, sono rimasto abbagliato!
I suoi disegni hanno una grande forza, genuina; e il contenuto
è altrettanto valido, unisce umorismo e emozione,
cosa piuttosto rara.
Si
ricorda la prima volta che Marjane le ha chiesto di realizzare
un film di animazione tratto dalla serie Persepolis?
Quando Marc-Antoine Robert si è offerto di produrre
Persepolis, Marjane mi ha chiesto di collaborare con lei.
Si sentiva più tranquilla perché io avevo
già diretto corti di animazione in bianco e nero.
Non potevo rifiutare – amavo il libro, e amavo Marjane.
E’ stata una straordinaria opportunità, per
me, fare qualcosa che non avevo mai fatto prima, lavorare
a un progetto così ambizioso da un punto di vista
artistico. Era allo stesso tempo allettante e rischioso.
Quali
sono stati i vostri punti di riferimento quando avete
cominciato a pensare al film?
Volevamo che il film avesse la stessa energia dei romanzi.
Non potevamo accontentarci di filmare una tavola dopo
l’altra. In realtà, i nostri riferimenti
sono stati film con attori in carne e ossa: io avevo visto
molte commedie italiane, perché mia madre le adorava,
mentre Marjane è una grande ammiratrice di Murnau
e dell’espressionismo tedesco. Così ci siamo
ispirati a questi due filoni e poi abbiamo messo insieme
le cose che ci piacevano.
I libri di Marjane raccontano la vita di una famiglia,
quindi anche il film doveva ruotare intorno a un tema
familiare centrale. I codici tradizionali dei film di
animazione non sembravano funzionare, così ho usato
un montaggio di tipo cinematografico, con molti stacchi
veloci. Anche da un punto di vista estetico, abbiamo attinto
a tecniche del cinema dal vivo.
Avete
visto insieme alcuni film in particolare, prima di cominciare
a lavorare a Persepolis?
Io ho visto film come La morte corre sul fiume e L’infernale
Quinlan, e alcuni film d’azione come Duel, che mi
hanno insegnato parecchie cose sul montaggio. Quando un
film è ben fatto, di qualunque genere sia, c’è
sempre da imparare.
Scendendo
nei dettagli, come siete riusciti a scrivere insieme la
sceneggiatura?
Per tre mesi ci siamo visti ogni giorno per 3-4 ore. Nessuno
dei due sa battere a macchina, quindi abbiamo usato una
matita, perché si poteva cancellare. Rileggevamo
quello che avevamo scritto, togliendo, aggiungendo, riscrivendo,
ecc. Abbiamo dovuto trovare il giusto equilibrio tra i
momenti cruciali e i dettagli più insignificanti
della vita quotidiana - è stato difficile scegliere
le cose da tenere e quelle da eliminare. Dopo un po’ci
siamo dimenticati dei libri e abbiamo lavorato alla sceneggiatura
e basta.
A
differenza dei libri, il film è un lungo flashback.
Come vi è venuta l’idea di fare la prima
scena a colori?
Marjane mi aveva raccontato che un venerdì (il
venerdì è il giorno dei voli per Teheran),
si sentiva così triste che era andata all’aeroporto
con l’intenzione di partire. Ha passato lì
tutto il giorno, a piangere guardando gli aerei decollare.
Abbiamo pensato che fosse una prima scena fantastica –
dà il senso della lontananza, della nostalgia.
E d’altra parte, il film parla di esilio…
Come
mai, secondo lei, Marjane ha sentito il bisogno di ripercorrere
la sua storia anche in un film?
A parte la sfida artistica, Marjane sta portando avanti
una sua battaglia, quindi è naturale che abbia
voluto fare il film. Ma è una persona intransigente
e onesta, anche con se stessa: è raro trovare libri
autobiografici come Persepolis scritti con tanto pudore
e così poca autocommiserazione. Marjane vuole lanciare
un messaggio, spera di riuscire a dare un’immagine
della realtà iraniana diversa da quella che la
gente vede alla tv o legge sui giornali. Inoltre le interessa
affrontare il tema dell’esilio, cosa significhi
per una bambina ritrovarsi catapultata al centro di eventi
storici che non riesce a comprendere…
Dato
l’aspetto personale, autobiografico di Persepolis,
le è stato difficile trovare un suo spazio durante
la stesura della sceneggiatura?
Non è stato solo difficile, è stato atroce!
Già è difficile intervenire sul lavoro di
un altro, in questo caso poi era anche la vita di un altro
- qualcuno che era seduto di fronte a me, qualcuno che
conosco e a cui voglio bene. Vedevo il disagio di Marjane,
e ho dovuto muovermi con cautela, ma lei mi ha sempre
incoraggiato molto. Lo stesso vale per l’aspetto
visuale del film – da un punto di vista artistico
mi ha dato carta bianca. Ci siamo completati e c’è
sempre stato un momento in cui avevamo bisogno l’uno
del punto di vista dell’altro.
Quali
sono state le sue principali preoccupazioni quando ha
cominciato a lavorare al film?
Poiché i personaggi di Marjane non potevano essere
altro che in bianco e nero, ci siamo concentrati sulle
scenografie. Non potendo avere uno sfondo tutto nero o
tutto bianco, siamo partiti da zero. Ho usato fotografie
di Teheran e di Vienna, per attingere alla realtà
ma senza dipenderne totalmente, e ho lavorato sulle sfumature
di grigio, facendo attenzione a non attenuare l’impatto
grafico dell’universo di Marjane. Ci siamo concentrati
su linee fluide, abbiamo parlato a lungo con Marc Jousset,
e alla fine quello che è venuto fuori è
uno stile classico.
Andando
avanti, qual è stato l’ostacolo più
difficile da superare?
Mantenere vivo l’entusiasmo: essere sotto pressione
per tre anni, e cercare di conservare la nostra visione
globale del progetto, è stato difficile. Marjane
e io abbiamo avuto un approccio piuttosto atipico ai codici
e perfino ai ritmi di lavoro tradizionali dell’animazione.
Marc-Antoine sapeva esattamente quello che volevamo e
ha lavorato duramente per sostenerci. Come pure Stéphane
Roche, il responsabile del compositing.*
Non c’era mai niente di definitivo. Facevamo continui
cambiamenti, sperimentavamo nuove idee, cercando di migliorare
sempre quello che già era stato fatto. Andare avanti
è stato possibile grazie all’aiuto di molti
che capivano l’obiettivo che ci eravamo proposti.
Un grosso vantaggio è stato quello di avere ogni
cosa a portata di mano, lavorando tutti insieme nello
stesso studio. Se volevo cambiare qualcosa, mi bastava
andare nella stanza accanto e dirlo alla persona che lavorava
a quella scena. Non dirò niente di originale, ma
i rapporti umani sono decisivi quando devi fare un film.
Che
cosa l’ha colpita di più, durante la lavorazione
del film?
Innanzitutto, Marjane e io non abbiamo mai litigato, nonostante
fossimo sotto pressione. Per lei è stata dura,
era molto stressata. Le persone non se ne accorgevano
perché Marjane è sempre così piena
di entusiasmo e di passione, mentre io sono un un gran
rompiscatole! Lei me lo diceva spesso. Non mi va mai bene
niente, sono fatto così.
Mi ha anche sorpreso il modo in cui mi sono fatto coinvolgere
emotivamente. Una volta pensavo di essere piuttosto distaccato,
nel mio lavoro, ma c’è qualcosa di profondamente
emotivo in questa storia. E Marjane riesce a trasmettere
queste emozioni, ma con un grande senso del pudore, una
grande modestia. Mi chiedo come faccia.
E’
stato lei a fare il nome di Olivier Bernet, per la colonna
sonora. Perché ha scelto lui?
Olivier ha capito subito quello che volevamo, e ha lavorato
con noi fin dall’inizio. Ho perfino modificato alcune
scene, sulla base dei suoi suggerimenti. In Persepolis
la musica ha un ruolo fondamentale: collega le sequenze
e dà unità al film.
Quale
ricordo le è rimasto più impresso di tutta
questa esperienza?
Forse la prima proiezione del rough cut, il montaggio
provvisorio: Marjane sudava e alla fine è quasi
svenuta. Fino a quel momento, si era sempre sforzata di
dimenticare che quella raccontata nel film era la sua
vita e c’era riuscita. Per fortuna, perché
altrimenti sarebbe stato intollerabile, sia per lei che
per me.
*(compositing:
tecnica digitale che combina immagini prese da diverse
fonti, per creare una singola inquadratura. Il compositing
ha sostituito la tecnica che consisteva nel sovrapporre
su pellicola diverse immagini per ottenerne una unica
finale.) |