|
Anno
2012
Genere
dramma
In
scena
fino al 27 gennaio
Teatro Argentina | Roma
|
Autore |
Luigi
Pirandello |
Regia |
Gabriele
Lavia |
Scene |
Alessandro
Camera |
Costumi |
Andrea
Viotti |
Luci |
Giovanni
Santolamazza |
Musica |
Giordano Corapi |
Interpreti |
Gabriele
Lavia, Gianni De Lellis, Lucia Lavia, Woody Neri, Daniela
Poggi, Riccardo Bocci, Dajana Roncione, Giorgio Crisafi,
Riccardo Monitillo, Alessandra Cristiani |
Produzione |
Teatro
di Roma |
|
In
una lettera spedita nel 1919 a Ruggero Ruggeri, primo attore
in ordine di tempo a vestire i panni di Martino Lori, controverso
protagonista dell'opera, Luigi Pirandello definì "Tutto
per bene" "la rappresentazione di
un dramma, quand’esso è già da tempo finito;
il benservito a un uomo, dopo che, a sua insaputa, gli si sono
fatte rappresentare, nel miglior modo possibile e proprio per
bene, tutte le parti: amico, marito, padre, suocero; ed è
la dimostrazione, che peggio per lui, se non è quel che
gli altri lo hanno creduto".
Al centro del gioco di specchi deformanti che caratterizza il
teatro di Pirandello, Lori recita la parte del vedovo inconsolabile
che vive i suoi giorni nel ricordo della defunta moglie e nella
dedizione alla giovane figlia Palma. Egli crede ciecamente ai
valori della famiglia e all'amicizia, ma per i personaggi altolocati
che lo circondano non è altro che un opportunista tanto
desideroso di far carriera da avere indotto la defunta consorte
a tradirlo con il potente senatore Salvo Manfroni, l'uomo che
lo eleverà al rango di consigliere di Stato. Mentre tutti
sono a conoscenza del fatto che Palma in realtà è
figlia del parlamentare, Lori non riesce ad afferrare le ragioni
del disprezzo di cui è vittima anche presso la ragazza.
La scoperta della verità è così dolorosa
da travolgere tutte le certezze coltivate da più lustri:
all'interno di un meccanismo molto pirandelliano, la maschera
che cade a terra coincide con la perdita dell'identità
da parte del personaggio, così disperato e confuso da
rovesciare in cieca violenza la mitezza di sempre. In un crescendo
di rabbia, Lori accarezza l'idea di vendicarsi contro Manfroni,
autore di un plagio scientifico che ne favorì la carriera
ma, alla fine, si accontenta dell'affetto di una figlia che
non è più sua figlia e del recupero di un'immagine
più rispettabile presso quella società che lo
ha trattato come un cocu magnifique.
Gabriele Lavia, che nel
corso della sua lunga carriera si è misurato a più
riprese con l'opera di Pirandello, è autore di una
prova maiuscola. Nella scena chiave in cui Palma svela a Martino
di non essere sua figlia, l'attore si muove frastornato nel
buio, in preda ad un delirio di sussurri e grida, che soltanto
un mattatore poteva mettere in scena con tanta forza e, al
contempo, con tanta ironia. Una nota di merito va a Lucia
Lavia, capace di muoversi da attrice navigata all'interno
di un dramma lastricato di cambi di registro, soprattutto
nel caso di un personggio centrale come quello di Palma. Gianni
De Lellis nella parte di Salvo Manfroni, Woody Neri in quella
del marchese Flavio Gualdi e Giorgio Crisafi in quella di
Veniero Bongiani restituiscono al pubblico l'immagine di un'alta
società tronfia e vanitosa, pronta a calpestare l'altrui
debolezza con la stessa disinvoltura con la quale si indossa
uno smoking. Bene Daniela Poggi nei panni della nonna lussuriosa.
Le scene di Alessandro
Camera, che sfruttano tramite architetture fin troppo maestose
tutto lo spazio disponibile, riprendono anche nel minimo particolare
le vestigia dello stile liberty, che nell'Italia dei primi
anni Venti viveva il suo inesorabile crepuscolo. Gli interni
richiamano alla memoria le abitazioni degli alti dignitari
borghesi della primissima epoca fascista. Il sepolcro della
defunta, invaso dalle fluorescenze, domina la scena dall'inizio
alla fine del dramma, alla stregua di un convitato di pietra.
In un'ambientazione quasi esclusivamente notturna o temporalesca,
elemento di primo piano sono le luci dirette con abilità
da Giovanni Santolamazza. Lo struggente tema musicale per
violino che attraversa il dramma assume connotati da protagonista
nei momenti in cui i personaggi si trasformano in marionette
che si muovono a ritroso, in una sorta di danza al rallentatore
che rimanda al teatro della morte di Tadeusz Kantor. Ennesima
invenzione e citazione di un Gabriele Lavia che compensa con
la regia una delle opere meno riuscite del maestro siciliano.
[valerio
refat]
|