È
di Seneca la “Medea”
scelta da Pierpaolo Sepe che si affida – nuovamente
– alla bravura di Maria Paiato (la scorsa stagione
sempre con la regia di Sepe, vestiva i panni di “Anna
Cappelli”, dal testo di
Annibale Ruccelli). La Medea della Paiato è
una donna ormai sola, abbandonata da tutti.
Lo spettacolo si concentra
sulle ultime ore che la separano dall’esilio,
le ore più tristi e folli che porteranno alla
distruzione totale. La maga potente è qui innanzitutto
una donna ferita che grida il suo dolore, una donna
ripudiata che spera fino alla fine di poter riavere
ciò che le spetta. La Paiato è, come
sempre, ipnotizzante per la bravura e quale Medea
riesce a toccare le corde più profonde dell’animo
umano. Il dialogo-sfogo che ha con Giasone, marito
infedele per il quale ha ucciso e commesso orrendi
delitti, è un duello ad armi impari: l’interpretazione
della Paiato surclassa e affonda quella del pur pulito
(anche se troppo gesticolante) Max Malatesta. Nella
scenografia buia di Francesco Ghisu si muovono anche
un Creonte (Orlando Cinque) appena uscito da un saloon,
il pontificatore-cantastorie rock (Diego Sepe) e la
nutrice (Giulia Galiani). Medea graffia con la forza
della sofferenza, dolore che chiede innanzitutto vendetta,
anche se questa si consumerà nel sangue che
coprirà i suoi stessi figli.
Un ritmo quasi ossessivo
scandisce l’intero spettacolo, che sembra però
peccare di «ansia da prestazione». È
come se nell’estasi creativa della pièce
ci si fosse lasciati prendere la mano da troppe “trovate”
che alla fine tra di loro cozzano (il pontificatore-cantastorie
rock, per esempio, nel monologo finale allenta la
tensione, incidendo sul generale climax del momento).
Sfrondato
da queste lungaggini, la “Medea”
di Sepe è teatro e, di questi tempi, non è
cosa da poco.
[patrizia vitrugno]