Presentato
in anteprima al Festival d’Avignone lo scorso luglio,
“The Four Seasons Restaurant”
è la terza opera della Trilogia dedicata da Romeo Castellucci
al complesso rapporto tra l’artista e l’immagine,
dopo “Sul concetto di volto
nel figlio di Dio” e il “Velo
nero del Pastore”. L’antefatto –
si legge nelle note di regia – è la decisione del
pittore Mark Rothko di ritirare nel 1958 delle tele commissionate
da un ristorante di New York, il Four Seasons, perché
considerato un luogo inadatto all’esposizione. I quadri
saranno poi esposti in seguito alla Tate Modern di Londra.
E’ bizzarro come
l’antefatto sia totalmente scollegato da ciò
che si vede in scena, tanto da far nascere il dubbio di aver
frainteso le note di regia: quello che ispira un drammaturgo,
alla fine, non è poi così interessante per il
pubblico, è piuttosto un fatto razionale, mentale,
pane per i denti dei critici teatrali. Il teatro di Castellucci,
inoltre, è un teatro fisico, in cui ogni singola parte
della scena viene vissuta fino in fondo: gli attori, gli oggetti,
il sipario. È un teatro che irrompe, violenta la platea
con la forza del rumore dei buchi neri dell’universo.
Dopo averla stordita, quasi annientata della capacità
di reazione, si apre il sipario e compare una scena bianco
lunare, un quadro vivente di Fattori, con donne che si muovono
con gli stessi gesti ritratti dal pittore realista italiano,
mentre recitano dei versi ispirati a “La morte di Empedocle”
di Hölderlin.
L’artista di Cesena
mette in scena l’intera iconografia italiana, tratta
da dipinti, statue; il suo gusto estetico è fortemente
italiano, come lo è quello per l’oratoria, fattore
che emerge ancora più a Strasburgo. Le figure femminili
presenti in scena invece portano fucili e indossano divise
che solo tramite una nuova nascita, uno spoglio integrale
riportano ad una purezza, all’autenticità. Il
sipario nero sembra quasi ingoiare quella bellezza, quella
classicità, come un mare cattivo che divora tutto e
lascia sulla scena un cavallo morto; poi un tuono squarcia
quell’oscurità creando nuovo caos, un Big Ben
che dà luogo ad un’immagine, un volto femminile
adorato da un coro di vestali.
In un’intervista
Castellucci ha definito “The
Four Seasons Restaurant” un atto di
rifiuto, un “homme en révolte” alla Albert
Camus: qui però non emerge umanità, ma violenza.
Ed è proprio qui il suo limite: si può usare
la provocazione e la violenza affinché il messaggio
venga recepito in modo forte e chiaro dal pubblico? Sembra
piuttosto una scorciatoia, che non fa onore al talento del
regista. Basti pensare al maestro Peter Brook, che usa la
grazia, la gentilezza, per comunicare al pubblico. Si percepisce
durante tutta la rappresentazione, una tensione, una rabbia,
che è l’amplificazione di quello che sembra essere
un conflitto interiore dell’artista, muto ma assordante,
autoreferenziale. Oggi la vera rivoluzione, a teatro come
nella vita, sarebbe opporre alla violenza dei rumori, delle
immagini, un messaggio fatto di una determinazione gentile
e costruttiva. Spiace che Castellucci usi la retorica violenta
per catturare lo spettatore. Il talento c’è,
la sintesi pure. Occorrerebbe superare il dualismo e avere
più rispetto per il pubblico.
[deborah ferrucci]
| edizione 2013
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