Quando
la storia compie il suo giro e torna a fare ombra
al presente sotto forma di farsa rileggere e soprattutto,
riascoltare la rabbiosa e immaginifica invettiva che
Carlo Emilio Gadda rovesciò sul fascismo pochi
mesi dopo la liberazione di Firenze, fornisce una
chiave di lettura psicoanalitica dei mali italici,
tanto ruvida quanto sottile. Più che Eros,
dio dell’amore e dell’armonia, l’esplicito
protagonista del saggio gaddiano è Priapo,
divinità dell’istinto sessuale maschile
che si incarna nell’esaltazione della fallocrazia
e del machismo, caratteristiche proprie del fascismo
e del personaggio Mussolini. In questo libello, come
in ogni opera dell’ingegnere, è il linguaggio
a fare la differenza; un fiume in piena, di termini
mutuati dal fiorentino di matrice duecentesca (anche
se non mancano riferimenti a Machiavelli).
Nella
rielaborazione di "Eros e Priapo" (firmata
da Adriana Martino), è una clochard, un fantasma
dei bassifondi (interpretato con bravura da Valentina
Martino Ghiglia), a scagliare su quello che fu il
“kuce” degli italiani una furia polemica
che si autoalimenta senza pause, fino ad investire
frontalmente anche le folle femminili, inneggianti
al fascismo e da esso sessualmente soggiogate. L’essere
narrante fa il suo ingresso in scena fuoriuscendo
da un lurido giaciglio di cartone, parte integrante
di una scenografia che sembra rappresentare sia un
ambiente urbano devastato dai bombardamenti, che la
periferia desolata di una qualunque metropoli del
XXI secolo.
Da
segnalare la prova della Martino Ghiglia che, accompagnata
alla batteria da Andrea Nicolè, riesce a tenere
in piedi per un’ora un monologo furioso e ricco
di asperità linguistiche. L’illuminazione,
tendente al rosso e al verde per tutta la durata dello
spettacolo, a tratti appare cupa e soffocante come
gli eterni clichè del machismo, caratteristica
fondamentale di un fascismo che, come dimostra il
presente, l’Italia aveva semplicemente rimosso.
[valerio refat]