Amore,
odio, gelosia, vendetta, desiderio, follia. Questi gli elementi
che miscelati sapientemente danno forma, vita e sviluppo alla
storia tra una seducente operaia del tabacco e l’amante
soldato di fanteria nella Siviglia di fine ottocento. Stiamo
naturalmente parlando dell’intreccio della Carmen, opera
lirica di Bizet trasposta oggi sullo schermo dalla compagnia
teatrale africana Dimpho di Kopane per la regia del debuttante
Mark Dornford-May e vincitore a sorpresa del 55esimo festival
di Berlino.
L’azione si sposta dalla Siviglia della seconda metà
dell’Ottocento alla Khayelitsha (Sud Africa) dei nostri
giorni, una città affollata, che ospita mezzo milione
di persone, di cui il 38 percento disoccupate, molte delle
quali vivono in catapecchie al di sotto della soglia di povertà.
Il testo originale francese è tradotto in lingua Xhosa
(il film viene giustamente distribuito in lingua originale
con i sottotitoli), riuscendo a mantenere la stessa originalità,
coloritura, vivacità dell’originale. Il cast
è composto dalla compagnia teatrale Dimpho di Kopane
al gran completo (40 attori e cantanti sudafricani talentuosi
in cui spicca la protagonista Pauline Malefane) fondata dallo
stesso regista nel 2000 in seguito a oltre duemila provini
effettuati in tutto il Sud Africa proprio per la messa in
scena teatrale della Carmen, oggi sullo schermo.
Un’opera curiosa, che affascina per il connubio tra
le musiche originali di Bizet e le sonorità, i ritmi,
le atmosfere delle melodie africane con cui si sposano a meraviglia
in un gioco di rimandi emozionali che si susseguono e si rincorrono
vicendevolmente. La stessa lingua Xhosa, mantiene in se una
melodia connaturata che si sposa a meraviglia, dopo un difficile
lavoro di traduzione ed adattamento, alle musiche travolgenti
e nello stesso tempo liriche della partitura composta da Bizet.
Girato come un vero e proprio musical, con una regia creativa
e nello stesso tempo asciutta ed attenta a mettere in risalto
la performance dei suoi cant-attori viene assecondato da una
fotografia che pesca nella tradizione del documentario etnografico
da una parte e che dall’altra riesce a riproporre sullo
schermo tutto il calore, la vivacità, la pastosità
dei colori del continente africano. [fabio
melandri]