Qual è
la gestazione della sua prima pellicola come autore cinematografico?
Quando sono arrivato in Sudafrica ho cominciato a fare dei
provini: volevo formare una compagnia teatrale. Avevo bisogno
di quaranta attori, ma ne ho selezionati duemila. Si è
presentato chiunque, nella speranza di poter avere un lavoro.
Abbiamo allestito molti spettacoli, tra cui la Carmen. Le
nostre rappresentazioni hanno girato il mondo, con ottimo
successo. In particolar modo l’opera di Bizet a Londra
è stata molto amata: Pauline è stata definita
la Carmen per eccellenza. Siamo stati anche in Australia,
America… Dopo tutto questo successo ci è sembrato
logico trasformalo in un film. La fortuna ha voluto che incontrassimo
un produttore molto fiducioso che è riuscito a trovare
i finanziatori. Chi avrebbe mai pensato qualcuno avrebbe scommesso
su un film in lingua indigena, tratto da un’opera lirica
e ambientato in un sobborgo. Eppure…
La traduzione
del libretto di Georges Bizet è stata complicata?
(Risponde la protagonista Pauline Malefane, ndr). Quella di
Carmen è una storia universale. Avendo girato il mondo
con la tournée teatrale per quattro anni, diciamo che
avevamo acquisito i temi fondamentali dell’opera. La
vera difficoltà risiedeva nella traduzione nel dialetto
Xhosa, nella metrica. Per avere il testo pronto ci sono voluti
tre mesi circa. Fortunatamente lo Xhosa è un linguaggio
musicale di per se, che ben si prestava al progetto cinematografico.
Come mai
ha scelto proprio un’opera lirica, invece di un testo
della tradizione locale?
(Prosegue l’intervista Mark Dornford-May, ndr). Pochi
sanno che l’Africa ha una tradizione vocale molto radicata.
A Città del Capo ci sono 1000 cori, ognuno composto
da 100 persone circa. Pauline canta da quando aveva sei anni…
C’è l’amore per la bella musica, che sia
gospel, popolare, o opera poco importa. Basta che sia bella.
Non c’è distinzione tra arte popolare e arte
“alta”.
Il sobborgo
di Khayelitsha fa da sfondo alla vicenda. Questa scelta ha
qualche valenza politica?
Certo. Non appena abbiamo stabilito che la location sarebbe
stata la città natale di Pauline, ci siamo resi conto
che era un evidente messaggio politico. Il problema economico
è una spinta molto forte nella vita di Carmen. Ho creduto
giusto dare risalto a questo punto di vista, dandogli un’accezione
attuale, condivisibile dai giovani africani. Per questo ho
fortemente voluto che la prima proiezione avvenisse a Khayelitsha:
il popolo africano non può permettersi di andare al
cinema, sia per le difficoltà economiche che per la
precarietà degli spostamenti. In soli cinque giorni,
da cento spettatori siamo arrivati a 1000. E’ il film
più visto in assoluto in Africa.
La rinascita
politica dell’Africa ha dato una valida spinta alla
cinematografia?
La libertà e la consapevolezza che ha ora il popolo
africano sono fondamentali per la rinascita dell’arte
e dell’espressività nazionale. I tempi sono maturi
perché il cinema autoctono si imponga a livello internazionale,
senza dover aspettare gli interventi stranieri. Ed è
esattamente quello che sta accadendo.
Per concludere:
è vero che il 22 gennaio sarà al Sundance Film
Festival con un nuovo film?
Sì. Si tratta di una pellicola incentrata sulla vita
di Gesù Cristo, dalla nascita alla crocifissione, ambientato
in un’Africa moderna. La vergine Maria è interpretata
da Pauline Malefane, quindi sarà un Gesù nero.
Recitano i quaranta attori della mia compagnia. Si intitola
Son of Man è sarà
anch’esso recitato in dialetto Xhosa, ma non è
cantato.