Se pensavate
di esservi liberati delle solite ragazze dall’aspetto
pallido ed emaciato, con gli occhi cerchiati di rosso ed i
capelli neri, lisci, lunghi usati come tentacoli avvolgenti
ed assassini… avete clamorosamente sbagliato i vostri
calcoli o sala cinematografica.
Si perché se al peggio non c’è mai fine,
ecco puntale il secondo capitolo americano di The
Grudge, prodotto da Sam Raimi che con la sua casa di produzione
Ghost House Pictures nel tentativo di rivitalizzare il genere
horror lo sta sapientemente seppellendo, badile dopo badile
sotto una montagna di mediocrità cinematografiche di
dubbio gusto.
Alla regia un uomo che su The Grudge
ha costruito la sua carriera e che presto ne verrà
travolto – ci auguriamo – ovvero Takashi Shimizu
nella cui filmografia conta le versioni per l’home video
di Ju-On e Ju-On
2, quelle cinematografiche di Ju-on:
Rancore e Ju-on: Rancore 2.
Se questa non è una maledizione…
The Grudge 2, scritto da Stephen
Susco autore anche del primo capitolo, parte da dove era finito
il precedente. Karen (Sarah Michelle Gellar) rinchiusa in
un ospedale, sottoposta a cure psichiatriche, è accusata
di aver incendiato e di conseguenza ucciso il proprio ragazzo
all’interno della casa maledetta abitata dallo spirito
di Kayako, a sua volta uccisa dal folle marito insieme alla
figlia adolescente. Raggiunta dalla sorella Aubrey, Karen
rimarrà vittima di una forza sconosciuta e molto pericolosa,
finendo per fare un giro turistico en plan air sui cieli di
Tokyo.
Stacco. Allison frequenta una scuola internazionale a Tokyo.
Disadattata, tenta in ogni modo di farsi nuove amicizie rischiando
la propria vita sottoponendosi ad un rito di iniziazione all’interno
della casa maledetta di cui sopra. Sarà l’inizio
di un nuovo incubo per lei e le sue due sconsiderate ragazze.
Stacco. L’introverso Jake accoglie con una certa freddezza
la nuova fidanzata di papà, contrariamente a quanto
invece fa la sorella maggiore Lacey. I suoi vicini di casa
inoltre si comportano in maniera inquietante, trattando la
loro figlia come una malata in quarantena.
Tre storie che si intrecciano, come va oramai di moda in molto
cinema contemporaneo, frammentando l’unità spazio-temporale,
per tentare di riempire il vuoto creativo ed artistico con
un puro formalismo di maniera. L’effetto di tale scelta
risulta controproducente le intenzioni del regista che mirava
ad approfondire i misteri celati nel primo capitolo ed allargare
i confini della maledizione uscendo dall’ambito angusto
della casa progenie per invadere la quotidianità dei
personaggi. E non c’è confine psicologico o fisico
che può opporsi alla maledizione nata dalla morte violenta
di una persona durante un impeto d’ira.
Il risultato è un film che implode su se stesso, aggrovigliandosi
in un intellettualismo narrativo privo di senso, affidandosi
a prestidigitazioni sonore e di montaggio per scuotere lo
spettatore dal torpore e noia che, questo si, lo cattura come
una vera e propria maledizione. [fabio
melandri]
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