La vendetta.
Una vendetta senza redenzione, senza possibile soddisfacimento,
senza fine. La vendetta, la violenza come condizione di vita,
inesorabile turbinio molesto, privo di appiglio alcuno, privo
di possibilità, di volontà di risalita.
Tim Burton torna a dipingere uno scenario cupo, umido, caustico,
vagamente dickensiano, per raccontare una storia che si adatti,
si plasmi al suo mondo, una storia macabra di sangue, morte
e fetore, irreale, fantastica, ma verosimile fino al punto
di generare un qual certo disagio nello spettatore.
La storia di Sweeney Todd è quella di un sanguinario
Montecristo, strappato alla propria bella e alla propria figlia
da un potente giudice malvagio, il giudice Turpin, e che,
tornato da una lunga e ingiusta prigionia, cercherà
in tutti i modi di vendicarsi. Lo farà insieme ad un’inaspettata
complice, miss Nelle Lovitt, una locandiera che nasconde più
cose di quel che appare.
Nemmeno i larghi finestroni dello studio da barbiere di Todd
riescono a illuminare una scenografia (realizzata dall’italiano
Dante Ferretti) che Burton volutamente sporca, oscura, soffoca.
L’unica tonalità che si distingue tra il bianco
cadaverico del volto di Johnny Depp e il nero più cupo
dei camini di Londra è il rosso del sangue che schizza
prepotente dalle gole recise del barbiere di Fleet Street.
Burton si destreggia nel campo che gli è più
congeniale, quello dell’immaginifico, sporcando la propria
narrazione con un tono denso, quasi horrorifico, avendo il
coraggio di mettere sul piatto sequenze scomode, trasudanti
di macabro e di violenza, che rischiano di essere indigeste
al pubblico che solitamente segue le sue storie ai confini
del favolistico.
La pellicola tuttavia non convince pienamente. Nonostante
lo sforzo a livello visivo, lo script è fragile. Una
tendenziale mancanza di patos e di immedesimazione contraddistingue
il film, che si adagia sul proprio lato “maledetto”,
mancando di sostanziale profondità. D’altro canto
le musiche sono solide, orecchiabili, ma non memorabili, non
rimangono in testa per più di qualche istante. E questo,
per un musical in cui il cantato occupa il 90% delle battute
complessive, non può non essere un problema.
Il mix così è quello di un film nulla più
che discreto, buono, ottimo, per i fans accaniti del regista,
ma sostanzialmente vuoto, privo di fascino, nonostante la
realizzazione delle ambientazioni e la fotografia creino un’impalcatura
visiva degna del miglior Burton.
[pietro salvatori]