L’alba
del 30 aprile 1945, cinque giorni dopo la Liberazione, vennero
trovati nella periferia di Milano i cadaveri di Osvaldo Valenti
e Luisa Ferida, giustiziati poche ore prima dai partigiani.
Coppia celebre nella vita oltre che sullo schermo, Valenti
e Ferida erano stati due divi di quel cinema dei “telefoni
bianchi” che il fascismo aveva incoraggiato, incarnando
quasi sempre personaggi ribaldi e negativi. Anche la loro
vita privata era dominata dal disordine; entrambi cocainomani
e, si diceva, sessualmente promiscui.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando
il paese si spaccò in due e i tedeschi da alleati si
trasformarono in esercito d’occupazione, Valenti e Ferida
risalirono al Nord e aderirono alla Repubblica di Salò,
ultima incarnazione della follia mussoliniana. Si stabilirono
prima a Venezia, dove girarono fortunosamente qualche film,
poi a Milano dove - arruolati in una banda di torturatori
- si dettero alla borsa nera.
Perlomeno queste erano le voci.
Consegnatisi ai partigiani pochi giorni prima della Liberazione,
i due negarono ogni addebito. Valenti giustificò i
suoi traffici col bisogno continuo di stupefacenti, sminuì
le presunte malefatte attribuendole alla diffamazione e all’invidia.
Il Comitato di Liberazione pretese una punizione esemplare.
Così calò il sipario su quei due attori un tempo
celeberrimi; Valenti nel ruolo del villain, Ferida in quello
della donna perduta. Chissà che alle dicerie che li
rovinarono non abbiano contribuito proprio i film che ne avevano
costruito la leggenda, proprio i personaggi riprovevoli tante
volte incarnati sullo schermo.