Chi erano Osvaldo Valenti e Luisa Ferida?
Com’è noto, cinque giorni dopo la Liberazione di Milano, vennero trovati in via Poliziano i corpi senza vita di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, giustiziati poche ore prima dai partigiani della Brigata Pasubio. Coppia celebre nella vita oltre che sullo schermo, Valenti e la Ferida erano stati tra i protagonisti del “cinema dei telefoni bianchi” che il fascismo aveva tanto sostenuto. Ma in quelle pellicole rassicuranti e perbeniste avevano sempre recitato la parte dei cattivi, turbando l’Italietta piccolo-borghese con personaggi che avevano eco anche nella spregiudicatezza della loro vita privata. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, aderirono alla Repubblica Sociale e si spostarono al Nord. Girarono fortunosamente qualche film a Venezia, negli stabilimenti della Giudecca dove Mussolini s’illuse di ricreare i fasti di Cinecittà. Lì cominciò un rapido declino. Valenti si arruolò nella Xa MAS di Junio Valerio Borghese, dov’ebbe compiti di contrabbando a scopo, diremmo oggi, di autofinanziamento, dato che la Xa era invisa agli stessi fascisti di Salò. Non risulta, come fu detto, che avesse partecipato ad azioni di rastrellamento, ma è vero che per approvvigionarsi di cocaina diventò assiduo di Pietro Koch, sinistro figuro che imperversava a Milano a capo di una polizia parallela responsabile di atrocità di ogni tipo. Proprio nei sotterranei di villa Triste, sede della banda Koch, nacque la leggenda della partecipazione di Valenti alle torture, con la Ferida che danzava discinta per aizzare la foia dei seviziatori.
Occorre dire che nessuno dei biografi che si sono occupati della vicenda ha mai trovato testimonianze dirette che avvallassero questa diceria.

Furono quindi giustiziati senza un processo?
Valenti si consegnò a Pietro “Vero” Marozin, comandante della Brigata Pasubio, proprio per discolparsi da questa accusa. Marozin fu figura molto discussa all’interno della stessa Resistenza. Pragmatico, sbrigativo, abituato a non andare troppo per il sottile. Prese in consegna Valenti e, in un secondo tempo, anche la Ferida. Tentò dapprima uno scambio di prigionieri coi tedeschi, ma la trattativa non diede alcun esito. Vero non eseguì subito l’ordine di fucilarli (lo aveva deciso il CLNAI, Comitato di Liberazione Alta Italia) e li trasferì invece in un cascinale alla periferia di Milano. Forse voleva valutare i margini di un atto di clemenza, forse voleva soltanto prendere tempo. Altre voci - che non sono mai stato in grado di verificare - insinuano che fosse interessato soprattutto ai gioielli della Ferida. Fatto sta che finì per riportarli a Milano e fucilarli la notte fra il 29 e il 30 aprile. Il pomeriggio prima era stata inscenata la “catartica” esibizione dei corpi di Mussolini e della Petacci, appesi a testa in giù insieme ad altri gerarchi a piazzale Loreto. Sandro Pertini disse che quel giorno la Resistenza era “disonorata”, Ferruccio Parri parlò di “macelleria messicana”.

Pensi che fossero innocenti?
Durante la loro breve detenzione nessuno si presentò a scagionarli, nessuno formalizzò un’accusa precisa. Più che contestazioni di fatti, testimonianze precise, furono decisivi altri elementi di natura, direi, leggendaria. Valenti e la Ferida avevano prestato il loro fascino al Regime, aderito a Salò, collaborato coi tedeschi, lucrato al mercato nero. Si erano sempre comportati al di sopra di qualsiasi legge, contraddicendo ogni buonsenso e decenza, perfino orgogliosi della loro dubbia fama. Che lo avessero fatto per narcisismo, leggerezza o voglia di épater le bourgeois, poco importava. Dovevano pagare, dare il buon esempio a tutti. Da questo punto di vista erano bersagli perfetti, “colpevoli” ideali.

La loro “immagine” cinematografica giocò un ruolo?
La Ferida aveva esordito nel 1935 con Freccia d'oro, diretto da Corrado D'Errico e Piero Ballerini, Valenti nel 1928 in Rapsodia ungherese diretto da Hans Schwarz. Cominciarono entrambi da ruoli secondari e quando conquistarono quelli principali, furono quasi sempre ruoli da antagonisti, Valenti relegato al ruolo del villain, la Ferida a quello della fedifraga, dell’amante, della rovina-famiglie o, all’opposto, della vittima di un destino avverso. Il cinema del ventennio non volle o non seppe utilizzare la naturalezza della loro recitazione (ogni tanto doppiati, lui da Augusto Marcacci e Sandro Ruffini, lei da Lydia Simoneschi quand’era santa, da Tina Lattanzi quand’era puttana) che in ruoli, sia pure valorosi, da comprimari. Cosa che spiega in parte la loro andata a Venezia, forse sperando in scritture migliori. Il cinema era allora strumento potentissimo di fascinazione, non escludo che alle dicerie che li rovinarono abbiano contribuito proprio i film che ne fabbricarono la leggenda, proprio i personaggi riprovevoli tante volte incarnati sullo schermo.

Fu Alessandro Blasetti a farli recitare per la prima volta insieme…
Nel ’39, nel film Un’avventura di Salvator Rosa. Valenti nel ruolo del conte Lamberto D’Arco, la Ferida in quello della bella contadina Lucrezia. Il protagonista era Gino Cervi (nel ruolo del titolo) e c’erano molti altri fantastici attori come Rina Morelli, Paolo Stoppa, Umberto Sacripante, Piero Pastore, tutti allora poco più che trentenni… cast meraviglioso!

Nel tuo film però racconti il loro primo incontro in modo del tutto diverso…
È la prima delle molte libertà che mi sono preso. Occorre fare una premessa: Sanguepazzo non è un film di detection che intende ricostruire “la vera storia di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti”, ma un’opera di fantasia ispirata a vicende e figure reali. Per questo mi sono permesso di interpretare, sintetizzare, tagliare, eludere, aggiungere, inventare.
In Sanguepazzo il loro incontro avviene quando Osvaldo è già attore affermato e Luisa ancora una comparsa. Le cose andarono molto diversamente. La vera Ferida aveva cominciato in teatro con Ruggero Ruggeri addirittura nel 1933 ed era già famosa quando incontrò Valenti sul set di Alessandro Blasetti. Ho voluto immaginare una ragazza appena sbarcata a Roma dalla provincia, senz’altre opportunità che la propria bellezza e disinvoltura. Provocata e irritata da Valenti - al quale pure sarebbe pronta a concedersi pur di acchiappare una scrittura - incontra subito dopo Golfiero che, senza nulla volere in cambio, le offre la parte che farà di lei una Diva.

Golfiero, interpretato da Alessio Boni, potrebbe essere ispirato a Luchino Visconti…
Le origini aristocratiche, l’amore per un cinema realistico, antropomorfico, la partecipazione alla Resistenza, l’omosessualità… effettivamente sono molti gli elementi che richiamano Visconti. Ma Golfiero non è Visconti, o perlomeno non è soltanto lui. In quel personaggio confluiscono qualità, aspirazioni, talenti che furono di cineasti anche molto diversi tra loro e il cui lavoro secondo me già preparò la “rivoluzione” neo-realista. Come Ferdinando Maria Poggioli, come Roberto Rossellini, Francesco De Robertis, come lo stesso Blasetti o l’ormai dimenticato Ivo Perilli, autore di un solo straordinario film, Ragazzo (1933), dove tra l’altro Valenti interpretò un piccolo ruolo, proibito dal regime e andato perduto durante la guerra. Un po’ come succede a Sanguepazzo, il film che sta girando Valenti…

Valenti diresse un film, ma non si chiamava Sanguepazzo…
Ebbe vari titoli: I predoni del Sahara, I predoni del deserto, Gli ultimi tuareg e anche I cavalieri del deserto! Lo doveva dirigere Gino Talamo che fu messo però fuori uso da un incidente d’auto. Gli subentrò Valenti, il quale volle al suo fianco il giovane Federico Fellini che ne aveva scritto, non accreditato, la sceneggiatura. Secondo la testimonianza di un altro interprete, Guido Celano, le riprese iniziarono in Libia a cavallo del 1942/43. Dovettero presto interrompersi a causa dall’avanzata anglo-americana, con conseguente rocambolesco ritorno in patria di tutta la troupe. Del film non sopravvisse nemmeno un fotogramma e Fellini fu sempre assai vago e reticente - com’era suo delizioso costume - su tutta la faccenda. Resta il fatto che Valenti aveva visto giusto sul talento di quel suo giovane collaboratore.

Cosa ti ha spinto a realizzare questo film? Si tratta di un progetto che covavi da molto tempo…
Infatti. Cominciai a scriverne subito dopo Maledetti vi amerò, il mio primo film. Eravamo alla fine degli anni ’70 e nulla pareva più inattuale della storia, tenebrosa e senza catarsi, di due attori fascisti giustiziati all’indomani della Liberazione. Su Valenti e Ferida non esisteva all’epoca che il libro di Aldo Lualdi Morire a Salò, il primo che ha cercato di ricostruirne la vicenda. Certo, c’erano le testimonianze di Attilio Tamaro (Due anni di Storia, Tosi, Roma 1950), di Elsa de Giorgi (I coetanei, Einaudi, Torino 1955), quelle raccolte da Francesco Savio in Ma l’amore no (Sonzogno, Milano 1975) e in Cinecittà anni trenta (Bulzoni, Roma 1979). Dato che molti dei protagonisti erano ancora vivi, cercai di intervistarli. Qualcuno fu elusivo e non volle nemmeno vedermi. Altri furono prodighi di notizie, con tale voglia di raccontare che pensai volessero liberarsi di un fardello. Fu una lenta immersione nella memoria di uomini che avevano patito la peggiore delle sciagure: la guerra dove perde anche il vincitore. La guerra civile.

Negli anni ’80 non si usava volentieri la definizione guerra civile a proposito di Resistenza e guerra di Liberazione.
È vero. Il saggio di Claudio Pavone (Una guerra civile, Bollati Boringhieri, 1991) che infranse questo tabù apparve nel decennio successivo. Per molti anni la definizione di guerra civile fu usato solo dai fascisti, ma era il termine giusto per indicare quello che accadde nel nostro Paese fra il settembre del 1943 e l’aprile 1945 e che continuò a succedere per molti altri anni ancora. Qualcosa che non è stato metabolizzato, che non riusciamo ad archiviare. Che torna fuori di continuo, talvolta come un incubo o una farsa. Per questo ho sempre voluto fare questo film. Ritengo quelle pagine di Storia cruciali per capire chi siamo, ne sento, bruciante e irrisolta, ancora tutta l’attualità.

Secondo te non esiste la cosiddetta “memoria condivisa”; in che senso?
Non credo alla memoria condivisa. La memoria si può condividere se simile, se generata da esperienze analoghe, ma non può essere imposta per decreto. La memoria è la nostra storia, la nostra identità. Non parlo dell’identità nazionale, del carattere e della cultura di un popolo, ma proprio della nostra identità personale, della nostra intimità, della catena del DNA, diversa per ogni singolo individuo. I valori si possono, anzi si devono, condividere. Senza condivisione di valori non esiste società. Ma la memoria è un altro affare. Un territorio complesso dove ogni filo d’erba, ogni granello di sabbia è diverso dall’altro e genera patrimoni emotivi differenti. Per questo esistono gli artisti. Per dare voce alle memorie più diverse, per raccontare le storie. Non la Storia. Raccontare la Storia è compito degli storici.

Come mai ci sono voluti oltre venticinque anni per realizzarlo?
I costi, innanzi tutto. Agli inizi della mia carriera non fu possibile trovare qualcuno disposto a investire tutti quei soldi su di me. Il progetto girò per i tavoli di una mezza dozzina di produttori, due o tre volte cominciai addirittura la preparazione. Poi tutto s’insabbiava. C’è da dire che, all’epoca, la televisione non voleva assolutamente intervenire in un progetto giudicato pericoloso. Il fascismo, Salò, il sesso, la cocaina, partigiani che fucilano senza processo… meglio lasciar perdere, meglio non cercare grane! Si sarebbe potuto farlo proponendolo a due star americane e girandolo quindi in inglese. Non che fossi contrario per principio, ma questa storia mi sembrava troppo nostra, troppo italiana, per andare così lontano. Avevo la sensazione che due star americane l’avrebbero snaturata. In tutti questi anni mi sono chiesto spesso se avesse ancora senso fare questo film. Una volta addirittura, scoraggiato per l’ennesimo buco nell’acqua, buttai tutte le sceneggiature che avevo in casa. Per fortuna un amico ne aveva conservato una copia.

La copia che hai dato ad Angelo Barbagallo! Tuo produttore per la seconda volta, dopo il grande successo de La meglio gioventù…
La meglio gioventù cambiò completamente la mia posizione nel mercato. Non tanto per il successo del film, quanto per la sua incredibile, capillare diffusione in tutto il mondo. Questo ha reso possibile l’accesso al finanziamento di molti paesi che in genere preferiscono comprare senza rischi a prodotto finito ma che in questo caso hanno invece voluto prenotare il film. E’ una fortuna che Angelo Barbagallo si sia buttato in questo progetto, dove tutti avevano gettato la spugna.

In tutti questi anni la sceneggiatura è cambiata?
È cambiata in tanti piccoli tagli, aggiunte, riparazioni, una lunga, continua opera di riscrittura. Purtroppo da un certo punto in poi non ho più potuto farla coi compagni d’avventura con cui avevo cominciato: Enzo Ungari e Leone Colonna, entrambi scomparsi molto giovani. Dopo le prime ricerche e interviste, cominciai a scrivere Sanguepazzo (che si chiamava allora Destino) con Enzo Ungari nell’83. Non volevo lavorare da solo, sentivo il bisogno di uno sceneggiatore che "filtrasse" un materiale con troppe implicazioni mie personali, un'interfaccia che fosse critica, distante, che non desse per scontate le informazioni che avevo raccolto, e allo stesso tempo amasse come me il cinema di quel periodo. Enzo era un grande cinéphile, per lui fu un invito a nozze. Stava lavorando contemporaneamente al soggetto de L'ultimo imperatore e non fu sorpreso dal mio desiderio di costruire il film su due piani temporali paralleli. Anche il film di Bertolucci era costruito con la stessa procedura, a sua volta derivata da Il conformista. Solo che ne Il conformista questa soluzione fu trovata in fase di edizione dal geniale montatore Kim Arcalli, mentre ne L’ultimo imperatore - e, si parva licet, in Sanguepazzo - fu prevista in sede di scrittura. Enzo si ammalò nell’inverno dell’84 e morì pochi mesi dopo, privando il cinema italiano di uno dei suoi più brillanti critici e organizzatori. Per molti mesi abbandonai il film, sofferente, demoralizzato. Lo ripresi con Leone Colonna, insieme al quale stavo scrivendo (anche con Luciano Manuzzi) Appuntamento a Liverpool, il mio film più sfortunato. Tra l’86 e l'87 cominciammo a rielaborare il copione, sempre senza avere un committente. Sia Enzo Ungari che Leone Colonna hanno sempre scritto per me a titolo grazioso, senza mai lamentarsi di non vedere una lira. Anche Leo è venuto a mancare nel 1998, pochi mesi prima che cominciassi le riprese de I cento passi. Era stato il primo amico conosciuto appena sbarcato a Roma agli inizi degli anni ’70, una delle persone con cui ho visto più film, condiviso più speranze. Fu un altro brutto colpo. Se non avessi fatto questo film nessuno avrebbe mai saputo che l’avevano scritto. Quando vedo nei titoli di Sanguepazzo il cartello coi loro nomi mi sembra di ritrovare questi cari amici, di rendere il giusto omaggio alla loro intelligenza e creatività.

Parliamo dei tuoi protagonisti principali, entrambi straordinariamente efficaci. Perché hai pensato a Luca Zingaretti e Monica Bellucci per i ruoli di Valenti e Ferida?
Cominciamo da Monica. Ci conosciamo da tanti anni, mi è sempre piaciuta. Per vari motivi abbiamo perso varie volte l’occasione di lavorare insieme. Bellucci ha una personalità forte, volitiva. Incarna un tipo di donna in controtendenza coi modelli imposti attualmente dal consumo. Tutte quelle belle statuine che esistono solo in quanto indicatori della capacità di spesa maschile. La pubblicità ha trasformato le donne in oggetti, le ha rese solo estensioni della bella automobile, del complemento d’arredo fichissimo, della bevanda trendy. L’immagine della loro femminilità, o ninfetta perversa o porcella insaziabile, sembra studiata da gente che le donne vere deve odiarle a morte! Monica, che pure di pubblicità ne ha fatta tanta, riesce sempre a eludere questa mortificazione. Anche quando fa gli occhi da maliarda, c’è in lei qualcosa di materno, protettivo ed esigente insieme. C’è in lei un forte spirito di indipendenza e allo stesso tempo una grande capacità di affidarsi. Insomma, la compagna di lavoro ideale. Come se non bastasse, siamo nati lo stesso giorno e ci capiamo al volo. Ho sempre creduto nelle sue qualità di attrice, generalmente meno sfruttate della sua avvenenza.

Indubbiamente in questo film sembra una creatura degli anni ‘30…
Merito ovviamente del costume, delle acconciature, del trucco, ma anche della totale dedizione con cui si è buttata nel progetto. Al punto di acconsentire perfino alla mia richiesta di prendere qualche chilo in più per avere il carnoso turgore delle donne di quel periodo.

E Luca Zingaretti?
Un attore fantastico. Disciplinato, rigoroso, sempre consapevole di quello che sta facendo, dotato di una tecnica prodigiosa, un controllo della voce, del corpo, che proviene da anni di duro apprendistato. Interpreta un personaggio col quale non ha niente in comune (non si potrebbero immaginare personalità più diverse!) eppure in certe scene Zingaretti è Valenti, perfino negli eccessi e nelle guasconate, perfino nei registri sovracuti che il vero Zingaretti deve detestare, essendo invece uomo riservatissimo e di poche parole. E’ stato un grande piacere lavorare con lui, un privilegio. Ho sentito subito che si sarebbe fidato, che mi avrebbe seguito anche in capo al mondo. Lo ammiro per questa sua disponibilità, dato che la sua fama proviene dall’aver interpretato uomini integri, magari bruschi o addolorati, ma sempre retti e generosi, come appunto il commissario Montalbano, Perlasca, Don Puglisi. Zingaretti non ha mai cercato di rendere Valenti accattivante, non ha mai avuto paura di risultare “antipatico”. Questo gli ha permesso di dipingere il personaggio come una sorta di figura araldica dell’italiano, o meglio di un certo italiano. Anarcoide, infantile, indisciplinato, furioso, perennemente contro. Non dovrei dirlo io, ma credo che Luca in questo film abbia fatto qualcosa di grande.

Nel film Luisa é combattuta fra l’amore per due uomini molto diversi. Da un lato Osvaldo, dall’altra Golfiero…
Un po’ come l’Italia, divisa fra fascisti e antifascisti… oggetto dell’amore di entrambe le fazioni. Indecisa a chi abbandonarsi, a chi concedere il proprio cuore. Ognuno dei due infatti “interpreta” una parte di lei.

In questo senso la scena del tram, quando Valenti potrebbe arrestare Golfiero e lo lascia invece libero, è rivelatrice...
E’ vero, Valenti potrebbe ordinare ai suoi marò di arrestarlo e invece si siede vicino a lui, sembra voler giocare al gatto col topo. Invece vuole solo parlare. Arriva un gruppetto di collegiali. Hanno riconosciuto l’attore, chiedono un autografo. Gli domandano se stia girando un film. A sorpresa Valenti parla del suo Sanguepazzo e s’inventa che ne affiderà la regia proprio a Golfiero. Racconta che il film è la storia di una donna divisa tra due amori e che bisogna accettare questa sua ambivalenza. E’ una grande dichiarazione d’amore verso Luisa e una grande dichiarazione di stima, forse addirittura di amicizia, verso Golfiero. Luca Zingaretti e Alessio Boni l’hanno interpretata magnificamente.

Alessio Boni, nel ruolo di Golfiero, mi pare ulteriormente maturato rispetto al Matteo de La meglio gioventù e al giovane industriale padano di Quando sei nato non puoi più nasconderti.
Alessio Boni cresce con la progressione costante e regolare delle piante secolari. Ha una duttilità incredibile, uno spirito di servizio che non si fa spaventare da alcun sacrificio. Ha perso sette chili per interpretare Golfiero e assumere la morfologia caratteristica di un uomo degli anni ’40, magro, sottonutrito. Ha perso tutta la sua possente massa muscolare, il suo fisico scolpito dalla palestra e dal nuoto. Ricorda un po’ certi attori americani che devono “soffrire” per calarsi nel personaggio, per conoscerne tutte le sfumature. Anche quelle apparentemente insignificanti. In più viene dall’Accademia, dal teatro, ha un’invidiabile preparazione tecnica e può vantare una gavetta di prim’ordine. Ma la sua dote migliore è la capacità di improvvisare con assoluta naturalezza. È l’ideale per me, dato che opero continui aggiustamenti e variazioni durante le riprese. In più è un amico leale, allegro e pieno di risorse, uno di quelli che vorresti avere come vicino di casa.

Nel finale appare Luigi Lo Cascio - suo fratello ne La meglio gioventù - nel ruolo del “giustiziere”. Apparizione che carica di senso l'esecuzione di Valenti...
Fu un caso davvero fortunato! Durante la lavorazione di "Sanguepazzo" a Torino, andai a vedere Luigi nella ripresa dello spettacolo di Luca Ronconi Il silenzio dei comunisti. Lo invitai a venirci a trovare sul set. Mi é venuto in mente che quel lunedì avremmo girato la scena dell’esecuzione. Gli ho chiesto: "Ti andrebbe di fucilare Zingaretti e la Bellucci?”. Si è messo a ridere. Durante la lavorazione de La meglio gioventù scherzavamo continuamente sul fatto che lo avevo preso per il ruolo di Nicola, in realtà preferendo in cuor mio proprio Luca Zingaretti. Non era vero ma siamo andati avanti per tutto il film a stuzzicarci. Ecco l’occasione di vendicare quel lontano (e del tutto inventato) tradimento! Devo dire che mi ha fatto molto piacere avere Lo Cascio nel film, sia pure per pochi istanti. Istanti preziosi, difficilissimi da interpretare. Luigi incarna il personaggio che non proviene dalla classe operaia, ma dal ceto medio, forse un giovane insegnante. Qualcuno comunque appena arruolato nella Resistenza, senza cultura militare, senza la preparazione e la decisione del militante di professione. “Abbiamo fatto giustizia…” mormora. Non è un’affermazione ma una domanda rivolta a se stesso. La domanda di chi dubita di aver fatto la cosa giusta, anche se era l’unica cosa da fare. Il suo sguardo diventa improvvisamente incerto, quasi spaventato per quel che le sue mani sono state capaci di compiere. Non si tratta di pentirsi o sconfessare il gesto imposto dalla resa dei conti, ma rendersi conto della sua terribilità, della sua tragica eccezionalità. Ci vuole un grande attore per rendere l’ambiguità di questo dubbio che, come avrebbe detto Sciascia, penetra nel suo cuore come il tradimento in una fortezza.

Vi sono altri due preziosi camei nel film…
Sì, quelli di Sonia Bergamasco, che interpreta una delle detenute di Villa Triste, e di Marco Paolini, che interpreta un commissario politico incaricato di “dare la linea” agli indisciplinati Vero e Golfiero. L’apparizione di Sonia dura pochi secondi ma puntualizza la forza, direi l’eroismo, con cui la prigioniera apostrofa Valenti: “Cosa ci fai con questi farabutti? Sei un artista, vattene via!”. Il grido di Sonia, la “violinista” subito zittita a pugni e calci, strappa via la maschera, svela, casomai non avesse capito, tutto l’orrore di quel luogo.

E Marco Paolini, con quelle intonazioni tipiche della recitazione anni ‘30?
Lo incontrai al Teatro Toniolo di Mestre - dov’era in scena il suo spettacolo Miserabili – Io e Margaret Thatcher - il giorno prima di iniziare le riprese. Gli ho proposto questo ruolo brevissimo, addirittura fulmineo, che aveva bisogno del suo carisma. Avevo bisogno della sua autorevolezza e probità per non fare del personaggio solo un algido e sgradevole manichino. Tanto più che é proprio lui a spiegare la necessità della punizione esemplare, dell’individuazione del colpevole simbolico che permette di risparmiare tutti gli altri.

Il personaggio di Vero, interpretato da Maurizio Donadoni, é diverso rispetto al partigiano Giuseppe Marozin?
Sì. Infatti nel film viene chiamato solo col suo nome di battaglia. Non ho voluto entrare nel merito delle discussioni sulla sua figura, come ho detto assai controversa. Ho voluto fare un film che guardasse a quei fatti come fossero accaduti non sessanta ma duecento, trecento anni fa. Lontani remoti, da cui estrarre una sorta di sentimento del tempo, non di restauro filologico. Il Vero di Maurizio Donadoni è un uomo d’azione, un capo militare abituato a prendere decisioni rapide, senza spaccare il capello in quattro. In questo assomiglia forse all’originale. Vive un rapporto di fascinazione/conflitto con Golfiero, che gli piace ma considera un borghese, sia pure redento. Prova sospetto per tutti quegli scrupoli e riguardi verso Valenti e Ferida, che considera criminali fascisti. Fosse per lui li avrebbe già fucilati. Ma i dubbi di Golfiero finiscono per contagiarlo, poco per volta si fa strada in lui il bisogno di una giustizia reale. Lo sguardo fra Donadoni e Lo Cascio alla fine del film, di dolore, di compassione infinita, è uno dei momenti che preferisco, quello che forse mi rappresenta di più, ammesso che un film debba rappresentare il suo autore e non soltanto raccontare una storia.

È assai commovente la giovane attrice che impersona Irene, la nipote di Vero, custode della cascina…
Tresy Taddei, davvero brava. Una scoperta di Pasquale Pozzessere, che la impiegò quando aveva 7 anni ne La vita che verrà. Tresy viene da una famiglia di circensi, è un’acrobata, il che spiega la sua morfologia antica, il suo corpo minuto e forte, come quello delle contadine di una volta. Doveva girare una sequenza difficile: assistere a una violenta crisi d’astinenza di Osvaldo, con Luisa che lo masturba per calmarlo. Poteva essere una scena solo brutale, morbosa, ai limiti del voyeurismo e della volgarità. Invece, grazie al turbamento, all’ingenuità, alla delicatezza che ha saputo esprimere Tresy – oltre al grande pathos trasmesso da Monica e Luca - è diventata una delle scene d’amore più struggenti di tutto il film.

Il personaggio di Sturla, interpretato da Giovanni Visentin, ha una funzione molto importante. Nel finale, al momento del processo, rivela ulteriori aspetti del suo "essere peggiore" persino di Valenti…
L’ambiguo factotum di Valenti, quello che gli procura la droga e le ragazze, diventa alla fine il teste chiave contro di lui, pronto a dire quello che tutti si aspettano. Un Leporello tragico, che in quella scena rivela tutta la propria debolezza e mediocrità, addirittura chiedendo a Valenti il permesso di tradirlo. Ci voleva un attore che, non avendo paura di mostrarsi vile, sapesse esprimere una sorta di perverso amore per Valenti, una segreta identificazione. Ha reso tutta l’ambivalenza del suo rapporto con Valenti come meglio non avrei potuto desiderare.

Il film presenta una sfilata di tipi sgradevoli, estremi. Penso soprattutto a Pietro Koch…
Non si può immaginare persona più distante da Pietro Koch di Paolo Bonanni, l’attore che l’ha interpretato. Un ragazzo dolcissimo, mite, con l’educazione dei gentiluomi dell’altro secolo. Si è immerso nella follia di Koch, nella sua sadica crudeltà, con vera sofferenza, lo ha eseguito come un musicista, senza mai far trapelare la ripugnanza che provava per quel criminale. A riprova che non sempre bisogna cercare attori che assomiglino al ruolo. Al contrario, possono essere molto più efficaci quelli che ne sono lontani anni-luce. Il capo truccatore Enrico Jacoponi ha avuto l’idea di mettergli quel finto incisivo d’oro che manda bagliori sinistri ogni volta che sorride. E’ stata una grande idea: Koch fa paura perfino quando cerca di mostrarsi gentile.

Il personaggio di Cardi, interpretato da Luigi Diberti, sembra ispirato a Luigi Freddi, il potente Direttore generale della Cinematografia, il fondatore di Cinecittà…
Il “Grande Artefice del Cinema Italiano”, come strilla beffardo Valenti facendo il verso al Duce! Gigi Diberti, altro magnifico attore, interpreta una figura ispirata proprio a Luigi Freddi, anche se Freddi non è mai stato amante della Ferida, né si è, per fortuna, suicidato. Epurato, dopo la guerra non potè svolgere che attività marginali, non volle - o non poté - riciclarsi, anche se era uomo notevole, con una capacità organizzativa e un’apertura mentale che i suoi successori non sempre ebbero.

Sei un filologo appassionato del cinema di quel periodo…
Il cinema italiano promosso, si potrebbe dire inventato, da Luigi Freddi e dal fascismo non è un cinema di propaganda, sul modello tedesco o sovietico, ma un cinema d'intrattenimento popolare ispirato all’esempio hollywoodiano. La propaganda era affidata al LUCE (Istituto per la Cinematografia Educativa, fondato fin dal 1924), il cinema ne fu esonerato. Luigi Freddi era stato un fascista della prima ora, giornalista al Popolo d’Italia. Su incarico di Mussolini e Ciano, aveva viaggiato negli USA soggiornandovi a lungo per studiarne il sistema cinematografico, convinto che l’Italia dovesse seguire una strada simile. Quella di un'industria competitiva, in grado non solo di produrre un immaginario nazionale, ma capace di esportarlo addirittura oltre confine. Freddi propose a Mussolini che, sull’esempio dell’IRI (Istituto Ricostruzioni Industriali, nato nel 1933), lo Stato intervenisse direttamente come finanziatore, tutore – e naturalmente anche censore – di un’impresa cinematografica che aveva basi gracili e sarebbe stata perciò direttamente dipendente dal regime, non l’avrebbe mai contraddetto. Mussolini, che da ex-giornalista aveva perfetta cognizione dell'importanza dei media, capì al volo che l’organizzazione del consenso sarebbe stata mille volte più efficace della propaganda. Mise in mano a Freddi la Direzione generale della Cinematografia, promulgò la legislazione sui mezzi finanziari per attivare la produzione, fondò gli studi di Cinecittà, il Centro Sperimentale di Cinematografia. Furono poste così le basi della nostra industria, quella che nel bene o nel male ha continuato anche dopo, e formati tutti i suoi quadri.

Non pochi film furono effettivamente molto belli…
Furono però cancellati per tre decenni dalla memoria, forse per la loro rima con un periodo che tutti volevano rimuovere. Si dovette aspettare una nuova generazione di critici – penso soprattutto ad Alberto Farassino – per rileggerli in una diversa prospettiva. Nella corrispondenza fra Freddi e Gallone durante la lavorazione di Scipione l’Africano, salta all’occhio come questi uomini amassero il mestiere. C’era una passione, una cura, una consapevolezza, un rigore, che sinceramente sono da rimpiangere. Gran parte di quei film erano ben girati, ben recitati, molti realizzati in presa diretta (cosa che obbliga alla selezione di bravi attori), con caratteristi di supporto che nulla avevano da invidiare al cinema americano. Da questo punto di vista, la produzione media del cinema italiano era migliore di quella odierna. Per contro bisogna riconoscere che le punte erano, per forza di cose, meno coraggiose, meno innovative, meno radicali. È pur un cinema adiacente al regime, proprio perché coccolato e finanziato dallo stesso regime.

Non temi, con queste affermazioni, d’indurre qualcuno a rimpiangere quei tempi?
No. Penso che solo dicendo le cose come stanno si possa strappare la miccia accesa dal fatalismo e dalla disillusione. Negli anni subito dopo la guerra era difficile rimpiangere il fascismo, la grottesca scritta “Aridatece er puzzone” era un beffardo strillo isolato. Il neofascismo ritrovò fiato quando si arrestò la crescita economica del paese e il suo benessere ebbe una battuta d’arresto. Oggi é passato così tanto tempo – e la disinformazione e l’ignoranza sono così diffuse – che per molti giovani non c’è alcuno scandalo nell’essere fascista, rimpiangendo un’epoca di cui non sanno assolutamente nulla. Basta navigare un po’ in internet per rendersene conto (e rimanerne spaventati). Se oggi il fascismo e, peggio ancora, il nazismo tornano a esercitare la loro ingannevole seduzione è proprio a causa dell’impoverimento e della disgregazione sociale dell'Europa, non solo dell'Italia. L’impoverimento crescente, l’informazione sempre più opaca e sotto controllo, la scuola sempre meno formativa, rendono la nostra memoria, la nostra capacità - o voglia - di parlare, sempre più mortificate e depresse Un clima simile, a mio modesto parere, a quel sentimento di frustrazione e angoscia che credette di vedere nella dittatura la sua catarsi. Valenti incarna un certo tipo di italiano, indisciplinato e conformista, ribelle e gregario, bigotto e irreligioso, infantile, spaventato, concentrato sul proprio particulare, facile preda di qualsiasi fascinazione e dipendenza, che mi sembra di sconcertante attualità. Per questo sono contento di aver realizzato Sanguepazzo ora e non negli anni '80, quand’era necessario solo per me. Oggi mi sembra un po’ necessario anche per gli altri…

Perché s’intitola Sanguepazzo, scritto tutto attaccato?
Un modo di dire siciliano, appreso ai tempi in cui giravo I cento passi. Indica uno spirito indisciplinato, eccentrico, incontrollabile. Una testa calda, un elemento pericoloso. Mauvais sang, dicono i francesi, in un’accezione molto simile.

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