Chi
erano Osvaldo Valenti e Luisa Ferida?
Com’è noto, cinque giorni dopo la Liberazione
di Milano, vennero trovati in via Poliziano i corpi
senza vita di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, giustiziati
poche ore prima dai partigiani della Brigata Pasubio.
Coppia celebre nella vita oltre che sullo schermo, Valenti
e la Ferida erano stati tra i protagonisti del “cinema
dei telefoni bianchi” che il fascismo aveva tanto
sostenuto. Ma in quelle pellicole rassicuranti e perbeniste
avevano sempre recitato la parte dei cattivi, turbando
l’Italietta piccolo-borghese con personaggi che
avevano eco anche nella spregiudicatezza della loro
vita privata. Dopo l’armistizio dell’8 settembre
1943, aderirono alla Repubblica Sociale e si spostarono
al Nord. Girarono fortunosamente qualche film a Venezia,
negli stabilimenti della Giudecca dove Mussolini s’illuse
di ricreare i fasti di Cinecittà. Lì cominciò
un rapido declino. Valenti si arruolò nella Xa
MAS di Junio Valerio Borghese, dov’ebbe compiti
di contrabbando a scopo, diremmo oggi, di autofinanziamento,
dato che la Xa era invisa agli stessi fascisti di Salò.
Non risulta, come fu detto, che avesse partecipato ad
azioni di rastrellamento, ma è vero che per approvvigionarsi
di cocaina diventò assiduo di Pietro Koch, sinistro
figuro che imperversava a Milano a capo di una polizia
parallela responsabile di atrocità di ogni tipo.
Proprio nei sotterranei di villa Triste, sede della
banda Koch, nacque la leggenda della partecipazione
di Valenti alle torture, con la Ferida che danzava discinta
per aizzare la foia dei seviziatori.
Occorre dire che nessuno dei biografi che si sono occupati
della vicenda ha mai trovato testimonianze dirette che
avvallassero questa diceria.
Furono quindi giustiziati
senza un processo?
Valenti si consegnò a Pietro “Vero”
Marozin, comandante della Brigata Pasubio, proprio per
discolparsi da questa accusa. Marozin fu figura molto
discussa all’interno della stessa Resistenza.
Pragmatico, sbrigativo, abituato a non andare troppo
per il sottile. Prese in consegna Valenti e, in un secondo
tempo, anche la Ferida. Tentò dapprima uno scambio
di prigionieri coi tedeschi, ma la trattativa non diede
alcun esito. Vero non eseguì subito l’ordine
di fucilarli (lo aveva deciso il CLNAI, Comitato di
Liberazione Alta Italia) e li trasferì invece
in un cascinale alla periferia di Milano. Forse voleva
valutare i margini di un atto di clemenza, forse voleva
soltanto prendere tempo. Altre voci - che non sono mai
stato in grado di verificare - insinuano che fosse interessato
soprattutto ai gioielli della Ferida. Fatto sta che
finì per riportarli a Milano e fucilarli la notte
fra il 29 e il 30 aprile. Il pomeriggio prima era stata
inscenata la “catartica” esibizione dei
corpi di Mussolini e della Petacci, appesi a testa in
giù insieme ad altri gerarchi a piazzale Loreto.
Sandro Pertini disse che quel giorno la Resistenza era
“disonorata”, Ferruccio Parri parlò
di “macelleria messicana”.
Pensi che fossero innocenti?
Durante la loro breve detenzione nessuno si presentò
a scagionarli, nessuno formalizzò un’accusa
precisa. Più che contestazioni di fatti, testimonianze
precise, furono decisivi altri elementi di natura, direi,
leggendaria. Valenti e la Ferida avevano prestato il
loro fascino al Regime, aderito a Salò, collaborato
coi tedeschi, lucrato al mercato nero. Si erano sempre
comportati al di sopra di qualsiasi legge, contraddicendo
ogni buonsenso e decenza, perfino orgogliosi della loro
dubbia fama. Che lo avessero fatto per narcisismo, leggerezza
o voglia di épater le bourgeois, poco importava.
Dovevano pagare, dare il buon esempio a tutti. Da questo
punto di vista erano bersagli perfetti, “colpevoli”
ideali.
La loro “immagine”
cinematografica giocò un ruolo?
La Ferida aveva esordito nel 1935 con Freccia d'oro,
diretto da Corrado D'Errico e Piero Ballerini, Valenti
nel 1928 in Rapsodia ungherese diretto da Hans Schwarz.
Cominciarono entrambi da ruoli secondari e quando conquistarono
quelli principali, furono quasi sempre ruoli da antagonisti,
Valenti relegato al ruolo del villain, la Ferida a quello
della fedifraga, dell’amante, della rovina-famiglie
o, all’opposto, della vittima di un destino avverso.
Il cinema del ventennio non volle o non seppe utilizzare
la naturalezza della loro recitazione (ogni tanto doppiati,
lui da Augusto Marcacci e Sandro Ruffini, lei da Lydia
Simoneschi quand’era santa, da Tina Lattanzi quand’era
puttana) che in ruoli, sia pure valorosi, da comprimari.
Cosa che spiega in parte la loro andata a Venezia, forse
sperando in scritture migliori. Il cinema era allora
strumento potentissimo di fascinazione, non escludo
che alle dicerie che li rovinarono abbiano contribuito
proprio i film che ne fabbricarono la leggenda, proprio
i personaggi riprovevoli tante volte incarnati sullo
schermo.
Fu Alessandro Blasetti
a farli recitare per la prima volta insieme…
Nel ’39, nel film Un’avventura di Salvator
Rosa. Valenti nel ruolo del conte Lamberto D’Arco,
la Ferida in quello della bella contadina Lucrezia.
Il protagonista era Gino Cervi (nel ruolo del titolo)
e c’erano molti altri fantastici attori come Rina
Morelli, Paolo Stoppa, Umberto Sacripante, Piero Pastore,
tutti allora poco più che trentenni… cast
meraviglioso!
Nel
tuo film però racconti il loro primo incontro
in modo del tutto diverso…
È la prima delle molte libertà che mi
sono preso. Occorre fare una premessa: Sanguepazzo non
è un film di detection che intende ricostruire
“la vera storia di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti”,
ma un’opera di fantasia ispirata a vicende e figure
reali. Per questo mi sono permesso di interpretare,
sintetizzare, tagliare, eludere, aggiungere, inventare.
In Sanguepazzo il loro incontro avviene quando Osvaldo
è già attore affermato e Luisa ancora
una comparsa. Le cose andarono molto diversamente. La
vera Ferida aveva cominciato in teatro con Ruggero Ruggeri
addirittura nel 1933 ed era già famosa quando
incontrò Valenti sul set di Alessandro Blasetti.
Ho voluto immaginare una ragazza appena sbarcata a Roma
dalla provincia, senz’altre opportunità
che la propria bellezza e disinvoltura. Provocata e
irritata da Valenti - al quale pure sarebbe pronta a
concedersi pur di acchiappare una scrittura - incontra
subito dopo Golfiero che, senza nulla volere in cambio,
le offre la parte che farà di lei una Diva.
Golfiero, interpretato
da Alessio Boni, potrebbe essere ispirato a Luchino
Visconti…
Le origini aristocratiche, l’amore per un cinema
realistico, antropomorfico, la partecipazione alla Resistenza,
l’omosessualità… effettivamente sono
molti gli elementi che richiamano Visconti. Ma Golfiero
non è Visconti, o perlomeno non è soltanto
lui. In quel personaggio confluiscono qualità,
aspirazioni, talenti che furono di cineasti anche molto
diversi tra loro e il cui lavoro secondo me già
preparò la “rivoluzione” neo-realista.
Come Ferdinando Maria Poggioli, come Roberto Rossellini,
Francesco De Robertis, come lo stesso Blasetti o l’ormai
dimenticato Ivo Perilli, autore di un solo straordinario
film, Ragazzo (1933), dove tra l’altro Valenti
interpretò un piccolo ruolo, proibito dal regime
e andato perduto durante la guerra. Un po’ come
succede a Sanguepazzo, il film che sta girando Valenti…
Valenti diresse un film,
ma non si chiamava Sanguepazzo…
Ebbe vari titoli: I predoni del Sahara, I predoni del
deserto, Gli ultimi tuareg e anche I cavalieri del deserto!
Lo doveva dirigere Gino Talamo che fu messo però
fuori uso da un incidente d’auto. Gli subentrò
Valenti, il quale volle al suo fianco il giovane Federico
Fellini che ne aveva scritto, non accreditato, la sceneggiatura.
Secondo la testimonianza di un altro interprete, Guido
Celano, le riprese iniziarono in Libia a cavallo del
1942/43. Dovettero presto interrompersi a causa dall’avanzata
anglo-americana, con conseguente rocambolesco ritorno
in patria di tutta la troupe. Del film non sopravvisse
nemmeno un fotogramma e Fellini fu sempre assai vago
e reticente - com’era suo delizioso costume -
su tutta la faccenda. Resta il fatto che Valenti aveva
visto giusto sul talento di quel suo giovane collaboratore.
Cosa
ti ha spinto a realizzare questo film? Si tratta di
un progetto che covavi da molto tempo…
Infatti. Cominciai a scriverne subito dopo Maledetti
vi amerò, il mio primo film. Eravamo alla fine
degli anni ’70 e nulla pareva più inattuale
della storia, tenebrosa e senza catarsi, di due attori
fascisti giustiziati all’indomani della Liberazione.
Su Valenti e Ferida non esisteva all’epoca che
il libro di Aldo Lualdi Morire a Salò, il primo
che ha cercato di ricostruirne la vicenda. Certo, c’erano
le testimonianze di Attilio Tamaro (Due anni di Storia,
Tosi, Roma 1950), di Elsa de Giorgi (I coetanei, Einaudi,
Torino 1955), quelle raccolte da Francesco Savio in
Ma l’amore no (Sonzogno, Milano 1975) e in Cinecittà
anni trenta (Bulzoni, Roma 1979). Dato che molti dei
protagonisti erano ancora vivi, cercai di intervistarli.
Qualcuno fu elusivo e non volle nemmeno vedermi. Altri
furono prodighi di notizie, con tale voglia di raccontare
che pensai volessero liberarsi di un fardello. Fu una
lenta immersione nella memoria di uomini che avevano
patito la peggiore delle sciagure: la guerra dove perde
anche il vincitore. La guerra civile.
Negli
anni ’80 non si usava volentieri la definizione
guerra civile a proposito di Resistenza e guerra di
Liberazione.
È vero. Il saggio di Claudio Pavone (Una guerra
civile, Bollati Boringhieri, 1991) che infranse questo
tabù apparve nel decennio successivo. Per molti
anni la definizione di guerra civile fu usato solo dai
fascisti, ma era il termine giusto per indicare quello
che accadde nel nostro Paese fra il settembre del 1943
e l’aprile 1945 e che continuò a succedere
per molti altri anni ancora. Qualcosa che non è
stato metabolizzato, che non riusciamo ad archiviare.
Che torna fuori di continuo, talvolta come un incubo
o una farsa. Per questo ho sempre voluto fare questo
film. Ritengo quelle pagine di Storia cruciali per capire
chi siamo, ne sento, bruciante e irrisolta, ancora tutta
l’attualità.
Secondo
te non esiste la cosiddetta “memoria condivisa”;
in che senso?
Non credo alla memoria condivisa. La memoria si può
condividere se simile, se generata da esperienze analoghe,
ma non può essere imposta per decreto. La memoria
è la nostra storia, la nostra identità.
Non parlo dell’identità nazionale, del
carattere e della cultura di un popolo, ma proprio della
nostra identità personale, della nostra intimità,
della catena del DNA, diversa per ogni singolo individuo.
I valori si possono, anzi si devono, condividere. Senza
condivisione di valori non esiste società. Ma
la memoria è un altro affare. Un territorio complesso
dove ogni filo d’erba, ogni granello di sabbia
è diverso dall’altro e genera patrimoni
emotivi differenti. Per questo esistono gli artisti.
Per dare voce alle memorie più diverse, per raccontare
le storie. Non la Storia. Raccontare la Storia è
compito degli storici.
Come mai ci sono voluti
oltre venticinque anni per realizzarlo?
I costi, innanzi tutto. Agli inizi della mia carriera
non fu possibile trovare qualcuno disposto a investire
tutti quei soldi su di me. Il progetto girò per
i tavoli di una mezza dozzina di produttori, due o tre
volte cominciai addirittura la preparazione. Poi tutto
s’insabbiava. C’è da dire che, all’epoca,
la televisione non voleva assolutamente intervenire
in un progetto giudicato pericoloso. Il fascismo, Salò,
il sesso, la cocaina, partigiani che fucilano senza
processo… meglio lasciar perdere, meglio non cercare
grane! Si sarebbe potuto farlo proponendolo a due star
americane e girandolo quindi in inglese. Non che fossi
contrario per principio, ma questa storia mi sembrava
troppo nostra, troppo italiana, per andare così
lontano. Avevo la sensazione che due star americane
l’avrebbero snaturata. In tutti questi anni mi
sono chiesto spesso se avesse ancora senso fare questo
film. Una volta addirittura, scoraggiato per l’ennesimo
buco nell’acqua, buttai tutte le sceneggiature
che avevo in casa. Per fortuna un amico ne aveva conservato
una copia.
La
copia che hai dato ad Angelo Barbagallo! Tuo produttore
per la seconda volta, dopo il grande successo de La
meglio gioventù…
La meglio gioventù cambiò completamente
la mia posizione nel mercato. Non tanto per il successo
del film, quanto per la sua incredibile, capillare diffusione
in tutto il mondo. Questo ha reso possibile l’accesso
al finanziamento di molti paesi che in genere preferiscono
comprare senza rischi a prodotto finito ma che in questo
caso hanno invece voluto prenotare il film. E’
una fortuna che Angelo Barbagallo si sia buttato in
questo progetto, dove tutti avevano gettato la spugna.
In tutti questi anni la
sceneggiatura è cambiata?
È cambiata in tanti piccoli tagli, aggiunte,
riparazioni, una lunga, continua opera di riscrittura.
Purtroppo da un certo punto in poi non ho più
potuto farla coi compagni d’avventura con cui
avevo cominciato: Enzo Ungari e Leone Colonna, entrambi
scomparsi molto giovani. Dopo le prime ricerche e interviste,
cominciai a scrivere Sanguepazzo (che si chiamava allora
Destino) con Enzo Ungari nell’83. Non volevo lavorare
da solo, sentivo il bisogno di uno sceneggiatore che
"filtrasse" un materiale con troppe implicazioni
mie personali, un'interfaccia che fosse critica, distante,
che non desse per scontate le informazioni che avevo
raccolto, e allo stesso tempo amasse come me il cinema
di quel periodo. Enzo era un grande cinéphile,
per lui fu un invito a nozze. Stava lavorando contemporaneamente
al soggetto de L'ultimo imperatore e non fu sorpreso
dal mio desiderio di costruire il film su due piani
temporali paralleli. Anche il film di Bertolucci era
costruito con la stessa procedura, a sua volta derivata
da Il conformista. Solo che ne Il conformista questa
soluzione fu trovata in fase di edizione dal geniale
montatore Kim Arcalli, mentre ne L’ultimo imperatore
- e, si parva licet, in Sanguepazzo - fu prevista in
sede di scrittura. Enzo si ammalò nell’inverno
dell’84 e morì pochi mesi dopo, privando
il cinema italiano di uno dei suoi più brillanti
critici e organizzatori. Per molti mesi abbandonai il
film, sofferente, demoralizzato. Lo ripresi con Leone
Colonna, insieme al quale stavo scrivendo (anche con
Luciano Manuzzi) Appuntamento a Liverpool, il mio film
più sfortunato. Tra l’86 e l'87 cominciammo
a rielaborare il copione, sempre senza avere un committente.
Sia Enzo Ungari che Leone Colonna hanno sempre scritto
per me a titolo grazioso, senza mai lamentarsi di non
vedere una lira. Anche Leo è venuto a mancare
nel 1998, pochi mesi prima che cominciassi le riprese
de I cento passi. Era stato il primo amico conosciuto
appena sbarcato a Roma agli inizi degli anni ’70,
una delle persone con cui ho visto più film,
condiviso più speranze. Fu un altro brutto colpo.
Se non avessi fatto questo film nessuno avrebbe mai
saputo che l’avevano scritto. Quando vedo nei
titoli di Sanguepazzo il cartello coi loro nomi mi sembra
di ritrovare questi cari amici, di rendere il giusto
omaggio alla loro intelligenza e creatività.
Parliamo dei tuoi protagonisti
principali, entrambi straordinariamente efficaci. Perché
hai pensato a Luca Zingaretti e Monica Bellucci per
i ruoli di Valenti e Ferida?
Cominciamo da Monica. Ci conosciamo da tanti anni, mi
è sempre piaciuta. Per vari motivi abbiamo perso
varie volte l’occasione di lavorare insieme. Bellucci
ha una personalità forte, volitiva. Incarna un
tipo di donna in controtendenza coi modelli imposti
attualmente dal consumo. Tutte quelle belle statuine
che esistono solo in quanto indicatori della capacità
di spesa maschile. La pubblicità ha trasformato
le donne in oggetti, le ha rese solo estensioni della
bella automobile, del complemento d’arredo fichissimo,
della bevanda trendy. L’immagine della loro femminilità,
o ninfetta perversa o porcella insaziabile, sembra studiata
da gente che le donne vere deve odiarle a morte! Monica,
che pure di pubblicità ne ha fatta tanta, riesce
sempre a eludere questa mortificazione. Anche quando
fa gli occhi da maliarda, c’è in lei qualcosa
di materno, protettivo ed esigente insieme. C’è
in lei un forte spirito di indipendenza e allo stesso
tempo una grande capacità di affidarsi. Insomma,
la compagna di lavoro ideale. Come se non bastasse,
siamo nati lo stesso giorno e ci capiamo al volo. Ho
sempre creduto nelle sue qualità di attrice,
generalmente meno sfruttate della sua avvenenza.
Indubbiamente
in questo film sembra una creatura degli anni ‘30…
Merito ovviamente del costume, delle acconciature, del
trucco, ma anche della totale dedizione con cui si è
buttata nel progetto. Al punto di acconsentire perfino
alla mia richiesta di prendere qualche chilo in più
per avere il carnoso turgore delle donne di quel periodo.
E Luca Zingaretti?
Un attore fantastico. Disciplinato, rigoroso, sempre
consapevole di quello che sta facendo, dotato di una
tecnica prodigiosa, un controllo della voce, del corpo,
che proviene da anni di duro apprendistato. Interpreta
un personaggio col quale non ha niente in comune (non
si potrebbero immaginare personalità più
diverse!) eppure in certe scene Zingaretti è
Valenti, perfino negli eccessi e nelle guasconate, perfino
nei registri sovracuti che il vero Zingaretti deve detestare,
essendo invece uomo riservatissimo e di poche parole.
E’ stato un grande piacere lavorare con lui, un
privilegio. Ho sentito subito che si sarebbe fidato,
che mi avrebbe seguito anche in capo al mondo. Lo ammiro
per questa sua disponibilità, dato che la sua
fama proviene dall’aver interpretato uomini integri,
magari bruschi o addolorati, ma sempre retti e generosi,
come appunto il commissario Montalbano, Perlasca, Don
Puglisi. Zingaretti non ha mai cercato di rendere Valenti
accattivante, non ha mai avuto paura di risultare “antipatico”.
Questo gli ha permesso di dipingere il personaggio come
una sorta di figura araldica dell’italiano, o
meglio di un certo italiano. Anarcoide, infantile, indisciplinato,
furioso, perennemente contro. Non dovrei dirlo io, ma
credo che Luca in questo film abbia fatto qualcosa di
grande.
Nel
film Luisa é combattuta fra l’amore per
due uomini molto diversi. Da un lato Osvaldo, dall’altra
Golfiero…
Un po’ come l’Italia, divisa fra fascisti
e antifascisti… oggetto dell’amore di entrambe
le fazioni. Indecisa a chi abbandonarsi, a chi concedere
il proprio cuore. Ognuno dei due infatti “interpreta”
una parte di lei.
In questo senso la scena
del tram, quando Valenti potrebbe arrestare Golfiero
e lo lascia invece libero, è rivelatrice...
E’ vero, Valenti potrebbe ordinare ai suoi marò
di arrestarlo e invece si siede vicino a lui, sembra
voler giocare al gatto col topo. Invece vuole solo parlare.
Arriva un gruppetto di collegiali. Hanno riconosciuto
l’attore, chiedono un autografo. Gli domandano
se stia girando un film. A sorpresa Valenti parla del
suo Sanguepazzo e s’inventa che ne affiderà
la regia proprio a Golfiero. Racconta che il film è
la storia di una donna divisa tra due amori e che bisogna
accettare questa sua ambivalenza. E’ una grande
dichiarazione d’amore verso Luisa e una grande
dichiarazione di stima, forse addirittura di amicizia,
verso Golfiero. Luca Zingaretti e Alessio Boni l’hanno
interpretata magnificamente.
Alessio Boni, nel ruolo
di Golfiero, mi pare ulteriormente maturato rispetto
al Matteo de La meglio gioventù e al giovane
industriale padano di Quando sei nato non puoi più
nasconderti.
Alessio Boni cresce con la progressione costante e regolare
delle piante secolari. Ha una duttilità incredibile,
uno spirito di servizio che non si fa spaventare da
alcun sacrificio. Ha perso sette chili per interpretare
Golfiero e assumere la morfologia caratteristica di
un uomo degli anni ’40, magro, sottonutrito. Ha
perso tutta la sua possente massa muscolare, il suo
fisico scolpito dalla palestra e dal nuoto. Ricorda
un po’ certi attori americani che devono “soffrire”
per calarsi nel personaggio, per conoscerne tutte le
sfumature. Anche quelle apparentemente insignificanti.
In più viene dall’Accademia, dal teatro,
ha un’invidiabile preparazione tecnica e può
vantare una gavetta di prim’ordine. Ma la sua
dote migliore è la capacità di improvvisare
con assoluta naturalezza. È l’ideale per
me, dato che opero continui aggiustamenti e variazioni
durante le riprese. In più è un amico
leale, allegro e pieno di risorse, uno di quelli che
vorresti avere come vicino di casa.
Nel finale appare Luigi
Lo Cascio - suo fratello ne La meglio gioventù
- nel ruolo del “giustiziere”. Apparizione
che carica di senso l'esecuzione di Valenti...
Fu un caso davvero fortunato! Durante la lavorazione
di "Sanguepazzo" a Torino, andai a vedere
Luigi nella ripresa dello spettacolo di Luca Ronconi
Il silenzio dei comunisti. Lo invitai a venirci a trovare
sul set. Mi é venuto in mente che quel lunedì
avremmo girato la scena dell’esecuzione. Gli ho
chiesto: "Ti andrebbe di fucilare Zingaretti e
la Bellucci?”. Si è messo a ridere. Durante
la lavorazione de La meglio gioventù scherzavamo
continuamente sul fatto che lo avevo preso per il ruolo
di Nicola, in realtà preferendo in cuor mio proprio
Luca Zingaretti. Non era vero ma siamo andati avanti
per tutto il film a stuzzicarci. Ecco l’occasione
di vendicare quel lontano (e del tutto inventato) tradimento!
Devo dire che mi ha fatto molto piacere avere Lo Cascio
nel film, sia pure per pochi istanti. Istanti preziosi,
difficilissimi da interpretare. Luigi incarna il personaggio
che non proviene dalla classe operaia, ma dal ceto medio,
forse un giovane insegnante. Qualcuno comunque appena
arruolato nella Resistenza, senza cultura militare,
senza la preparazione e la decisione del militante di
professione. “Abbiamo fatto giustizia…”
mormora. Non è un’affermazione ma una domanda
rivolta a se stesso. La domanda di chi dubita di aver
fatto la cosa giusta, anche se era l’unica cosa
da fare. Il suo sguardo diventa improvvisamente incerto,
quasi spaventato per quel che le sue mani sono state
capaci di compiere. Non si tratta di pentirsi o sconfessare
il gesto imposto dalla resa dei conti, ma rendersi conto
della sua terribilità, della sua tragica eccezionalità.
Ci vuole un grande attore per rendere l’ambiguità
di questo dubbio che, come avrebbe detto Sciascia, penetra
nel suo cuore come il tradimento in una fortezza.
Vi sono altri due preziosi
camei nel film…
Sì, quelli di Sonia Bergamasco, che interpreta
una delle detenute di Villa Triste, e di Marco Paolini,
che interpreta un commissario politico incaricato di
“dare la linea” agli indisciplinati Vero
e Golfiero. L’apparizione di Sonia dura pochi
secondi ma puntualizza la forza, direi l’eroismo,
con cui la prigioniera apostrofa Valenti: “Cosa
ci fai con questi farabutti? Sei un artista, vattene
via!”. Il grido di Sonia, la “violinista”
subito zittita a pugni e calci, strappa via la maschera,
svela, casomai non avesse capito, tutto l’orrore
di quel luogo.
E
Marco Paolini, con quelle intonazioni tipiche della
recitazione anni ‘30?
Lo incontrai al Teatro Toniolo di Mestre - dov’era
in scena il suo spettacolo Miserabili – Io e Margaret
Thatcher - il giorno prima di iniziare le riprese. Gli
ho proposto questo ruolo brevissimo, addirittura fulmineo,
che aveva bisogno del suo carisma. Avevo bisogno della
sua autorevolezza e probità per non fare del
personaggio solo un algido e sgradevole manichino. Tanto
più che é proprio lui a spiegare la necessità
della punizione esemplare, dell’individuazione
del colpevole simbolico che permette di risparmiare
tutti gli altri.
Il personaggio di Vero,
interpretato da Maurizio Donadoni, é diverso
rispetto al partigiano Giuseppe Marozin?
Sì. Infatti nel film viene chiamato solo col
suo nome di battaglia. Non ho voluto entrare nel merito
delle discussioni sulla sua figura, come ho detto assai
controversa. Ho voluto fare un film che guardasse a
quei fatti come fossero accaduti non sessanta ma duecento,
trecento anni fa. Lontani remoti, da cui estrarre una
sorta di sentimento del tempo, non di restauro filologico.
Il Vero di Maurizio Donadoni è un uomo d’azione,
un capo militare abituato a prendere decisioni rapide,
senza spaccare il capello in quattro. In questo assomiglia
forse all’originale. Vive un rapporto di fascinazione/conflitto
con Golfiero, che gli piace ma considera un borghese,
sia pure redento. Prova sospetto per tutti quegli scrupoli
e riguardi verso Valenti e Ferida, che considera criminali
fascisti. Fosse per lui li avrebbe già fucilati.
Ma i dubbi di Golfiero finiscono per contagiarlo, poco
per volta si fa strada in lui il bisogno di una giustizia
reale. Lo sguardo fra Donadoni e Lo Cascio alla fine
del film, di dolore, di compassione infinita, è
uno dei momenti che preferisco, quello che forse mi
rappresenta di più, ammesso che un film debba
rappresentare il suo autore e non soltanto raccontare
una storia.
È
assai commovente la giovane attrice che impersona Irene,
la nipote di Vero, custode della cascina…
Tresy Taddei, davvero brava. Una scoperta di Pasquale
Pozzessere, che la impiegò quando aveva 7 anni
ne La vita che verrà. Tresy viene da una famiglia
di circensi, è un’acrobata, il che spiega
la sua morfologia antica, il suo corpo minuto e forte,
come quello delle contadine di una volta. Doveva girare
una sequenza difficile: assistere a una violenta crisi
d’astinenza di Osvaldo, con Luisa che lo masturba
per calmarlo. Poteva essere una scena solo brutale,
morbosa, ai limiti del voyeurismo e della volgarità.
Invece, grazie al turbamento, all’ingenuità,
alla delicatezza che ha saputo esprimere Tresy –
oltre al grande pathos trasmesso da Monica e Luca -
è diventata una delle scene d’amore più
struggenti di tutto il film.
Il
personaggio di Sturla, interpretato da Giovanni Visentin,
ha una funzione molto importante. Nel finale, al momento
del processo, rivela ulteriori aspetti del suo "essere
peggiore" persino di Valenti…
L’ambiguo factotum di Valenti, quello che gli
procura la droga e le ragazze, diventa alla fine il
teste chiave contro di lui, pronto a dire quello che
tutti si aspettano. Un Leporello tragico, che in quella
scena rivela tutta la propria debolezza e mediocrità,
addirittura chiedendo a Valenti il permesso di tradirlo.
Ci voleva un attore che, non avendo paura di mostrarsi
vile, sapesse esprimere una sorta di perverso amore
per Valenti, una segreta identificazione. Ha reso tutta
l’ambivalenza del suo rapporto con Valenti come
meglio non avrei potuto desiderare.
Il film presenta una sfilata
di tipi sgradevoli, estremi. Penso soprattutto a Pietro
Koch…
Non si può immaginare persona più distante
da Pietro Koch di Paolo Bonanni, l’attore che
l’ha interpretato. Un ragazzo dolcissimo, mite,
con l’educazione dei gentiluomi dell’altro
secolo. Si è immerso nella follia di Koch, nella
sua sadica crudeltà, con vera sofferenza, lo
ha eseguito come un musicista, senza mai far trapelare
la ripugnanza che provava per quel criminale. A riprova
che non sempre bisogna cercare attori che assomiglino
al ruolo. Al contrario, possono essere molto più
efficaci quelli che ne sono lontani anni-luce. Il capo
truccatore Enrico Jacoponi ha avuto l’idea di
mettergli quel finto incisivo d’oro che manda
bagliori sinistri ogni volta che sorride. E’ stata
una grande idea: Koch fa paura perfino quando cerca
di mostrarsi gentile.
Il
personaggio di Cardi, interpretato da Luigi Diberti,
sembra ispirato a Luigi Freddi, il potente Direttore
generale della Cinematografia, il fondatore di Cinecittà…
Il “Grande Artefice del Cinema Italiano”,
come strilla beffardo Valenti facendo il verso al Duce!
Gigi Diberti, altro magnifico attore, interpreta una
figura ispirata proprio a Luigi Freddi, anche se Freddi
non è mai stato amante della Ferida, né
si è, per fortuna, suicidato. Epurato, dopo la
guerra non potè svolgere che attività
marginali, non volle - o non poté - riciclarsi,
anche se era uomo notevole, con una capacità
organizzativa e un’apertura mentale che i suoi
successori non sempre ebbero.
Sei un filologo appassionato
del cinema di quel periodo…
Il cinema italiano promosso, si potrebbe dire inventato,
da Luigi Freddi e dal fascismo non è un cinema
di propaganda, sul modello tedesco o sovietico, ma un
cinema d'intrattenimento popolare ispirato all’esempio
hollywoodiano. La propaganda era affidata al LUCE (Istituto
per la Cinematografia Educativa, fondato fin dal 1924),
il cinema ne fu esonerato. Luigi Freddi era stato un
fascista della prima ora, giornalista al Popolo d’Italia.
Su incarico di Mussolini e Ciano, aveva viaggiato negli
USA soggiornandovi a lungo per studiarne il sistema
cinematografico, convinto che l’Italia dovesse
seguire una strada simile. Quella di un'industria competitiva,
in grado non solo di produrre un immaginario nazionale,
ma capace di esportarlo addirittura oltre confine. Freddi
propose a Mussolini che, sull’esempio dell’IRI
(Istituto Ricostruzioni Industriali, nato nel 1933),
lo Stato intervenisse direttamente come finanziatore,
tutore – e naturalmente anche censore –
di un’impresa cinematografica che aveva basi gracili
e sarebbe stata perciò direttamente dipendente
dal regime, non l’avrebbe mai contraddetto. Mussolini,
che da ex-giornalista aveva perfetta cognizione dell'importanza
dei media, capì al volo che l’organizzazione
del consenso sarebbe stata mille volte più efficace
della propaganda. Mise in mano a Freddi la Direzione
generale della Cinematografia, promulgò la legislazione
sui mezzi finanziari per attivare la produzione, fondò
gli studi di Cinecittà, il Centro Sperimentale
di Cinematografia. Furono poste così le basi
della nostra industria, quella che nel bene o nel male
ha continuato anche dopo, e formati tutti i suoi quadri.
Non pochi film furono
effettivamente molto belli…
Furono però cancellati per tre decenni dalla
memoria, forse per la loro rima con un periodo che tutti
volevano rimuovere. Si dovette aspettare una nuova generazione
di critici – penso soprattutto ad Alberto Farassino
– per rileggerli in una diversa prospettiva. Nella
corrispondenza fra Freddi e Gallone durante la lavorazione
di Scipione l’Africano, salta all’occhio
come questi uomini amassero il mestiere. C’era
una passione, una cura, una consapevolezza, un rigore,
che sinceramente sono da rimpiangere. Gran parte di
quei film erano ben girati, ben recitati, molti realizzati
in presa diretta (cosa che obbliga alla selezione di
bravi attori), con caratteristi di supporto che nulla
avevano da invidiare al cinema americano. Da questo
punto di vista, la produzione media del cinema italiano
era migliore di quella odierna. Per contro bisogna riconoscere
che le punte erano, per forza di cose, meno coraggiose,
meno innovative, meno radicali. È pur un cinema
adiacente al regime, proprio perché coccolato
e finanziato dallo stesso regime.
Non temi, con queste affermazioni,
d’indurre qualcuno a rimpiangere quei tempi?
No. Penso che solo dicendo le cose come stanno si possa
strappare la miccia accesa dal fatalismo e dalla disillusione.
Negli anni subito dopo la guerra era difficile rimpiangere
il fascismo, la grottesca scritta “Aridatece er
puzzone” era un beffardo strillo isolato. Il neofascismo
ritrovò fiato quando si arrestò la crescita
economica del paese e il suo benessere ebbe una battuta
d’arresto. Oggi é passato così tanto
tempo – e la disinformazione e l’ignoranza
sono così diffuse – che per molti giovani
non c’è alcuno scandalo nell’essere
fascista, rimpiangendo un’epoca di cui non sanno
assolutamente nulla. Basta navigare un po’ in
internet per rendersene conto (e rimanerne spaventati).
Se oggi il fascismo e, peggio ancora, il nazismo tornano
a esercitare la loro ingannevole seduzione è
proprio a causa dell’impoverimento e della disgregazione
sociale dell'Europa, non solo dell'Italia. L’impoverimento
crescente, l’informazione sempre più opaca
e sotto controllo, la scuola sempre meno formativa,
rendono la nostra memoria, la nostra capacità
- o voglia - di parlare, sempre più mortificate
e depresse Un clima simile, a mio modesto parere, a
quel sentimento di frustrazione e angoscia che credette
di vedere nella dittatura la sua catarsi. Valenti incarna
un certo tipo di italiano, indisciplinato e conformista,
ribelle e gregario, bigotto e irreligioso, infantile,
spaventato, concentrato sul proprio particulare, facile
preda di qualsiasi fascinazione e dipendenza, che mi
sembra di sconcertante attualità. Per questo
sono contento di aver realizzato Sanguepazzo ora e non
negli anni '80, quand’era necessario solo per
me. Oggi mi sembra un po’ necessario anche per
gli altri…
Perché
s’intitola Sanguepazzo, scritto tutto attaccato?
Un modo di dire siciliano, appreso ai tempi in cui giravo
I cento passi. Indica uno spirito indisciplinato, eccentrico,
incontrollabile. Una testa calda, un elemento pericoloso.
Mauvais sang, dicono i francesi, in un’accezione
molto simile.