Si
scrive Infamous ma si legge Capote.
E intendo il Capote di Bennet
Miller, il film con Philip Seymour Hoffman su Truman Capote
uscito un anno fa. E’incredibile ma ad Hollywood può
succedere che non ci siano idee per un decennio e allora si
tende a rifare quello che è già stato fatto
in passato (il terribile trend del remake) oppure come in
questo caso che due sceneggiatori scrivano la stessa storia
a distanza di un mese. Il paradosso vuole che i due manoscritti
siano pressoché identici e contemporanei ma solo uno
sia stato letto in tempo da Bingham Ray, produttore di Nicholas
Nickleby, precedente film di McGrath. E purtroppo per
McGrath non è stato il suo ad avere la precedenza ma
quello di Dan Futterman. Poco male tanto a produrglielo ci
ha pensato la Killer Films, la stessa che ha prodotto tanti
grandi film indipendenti come Far from
heaven, Happiness e Boys,
Don’t Cry. E la Warner Indipendent a distribuirglielo.
La trama del film è dunque la stessa di Capote:
un feroce massacro perpetrato ai danni dei Clutter, una famigliola
di contadini del Kansas, suscita l’interesse del grande
scrittore newyorkese Truman Capote tanto da spingerlo a trasferirsi
sul luogo del delitto per indagare sul caso. Il rapporto che
instaurerà con i due criminali responsabili del truce
omicidio gli permetterà di scrivere il suo romanzo
In Cold Blood ma ne segnerà
anche l’inarrestabile declino.
Non c’è molto da aggiungere: Capote, qui interpretato
da un sublime Toby Jones che non fa rimpiangere Seymour Hoffman,
è diviso tra le fisime maniacali per il gossip metropolitano
e la naturale predisposizione all’ascolto della cronaca
dei fatti. E’ forse accentuato l’aspetto più
ammaliante del suo carattere, la sua inconfondibile (auto)ironia,
dote che gli ha permesso di sopravvivere in mezzo ai grandi,
lui che proprio grande non era (fisicamente intendo).
Il film di McGrath è più un film sull’uomo
Capote che non sui fatti che lo spinsero a scrivere il suo
bestseller. McGrath tende a spiegare tutto quello che nel
film di Miller veniva solo accennato o semplicemente lasciato
intendere. Nel rapporto intimo tra Capote e Perry Smith, uno
dei due assassini, si fa riferimento apertamente ad un irresistibile
omoerotismo tra i due e ad un presunto travisamento da parte
di Capote della strana relazione che si è costruito.
Smith lo chiama sempre amico Truman e Capote racconta invece
che si amavano. C’è quasi una sorta di distorsione
della realtà, una distorsione legata alla passionalità
di due uomini soli che per la prima volta nella vita si sentono
reciprocamente amati. Il compagno di Capote parla addirittura
di tradimento sostenendo che si era innamorato di Smith e
non semplicemente invaghito come spesso succedeva ad entrambi
nel corso della loro routine amorosa di coppia aperta. Scavando
nella psicologia dei due assassini Capote scava dentro se
stesso, rivive i suoi traumi e si avvicina ai (con)dannati.
Compromette se stesso e la propria carriera senza sapere se
ne valga davvero la pena. Certo, In
Cold Blood è un capolavoro ma
a che prezzo? Dopo l’incontro con Smith la sua vita
non è stata più la stessa. E come dice nelle
ultime battute del film l’amica del cuore di Capote,
Harper Lee, la sera dell’esecuzione dei due assassini
non furono due ma tre i morti. [marco catola]
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