In principio
furono le foibe con Porzus, a
cui seguì il catastrofico Vajont
e la rilettura del caso Moro con Piazza
delle Cinque Lune. Non c’è che dire! A
Renzo Martinelli, un passato nel mondo dei videoclip e della
pubblicità, la rilettura della storia con taglio maieutico
come lo autodefinisce, piace e molto.
Oggi con Il mercante di pietre,
ricca co-produzione italio-inglese, affronta un tema quanto
mai d’attualità, sebbene scritto due anni fa,
sul terrorismo di matrice islamica. Un viaggio all’interno
del fondamentalismo mussulmano illustrato da un Caronte assai
particolare, Ludovico Vicedomini (Harvey Keitel), il mercante
del titolo, un cristiano convertito all’Islam, che ha
fatto della Jihad - letteralmente “sforzo” - la
sua sciabola contro il nemico da convertire o sottomettere.
Vicedomini fa parte di una cellula dormiente di Al Queda,
che opera tra Milano e Torino, il cui capo è un Imam,
Shahid (F. Murray Abraham), con l’hobby del piccolo
chimico. Il suo ruolo è quello di individuare la “colomba”,
ovvero un inconsapevole civile volto al martirio, anello terminale
della catena volta al compimento di uno spaventoso attentato
terroristico. La “colomba” in questione ha le
fattezze morbide ed eleganti di Leda (Jane March), moglie
di un professore universitario di storia del terrorismo (Jordi
Mollà) alla Sapienza di Roma, privato delle gambe durante
il sanguinoso attentato all’Ambasciata Americana di
Nairobi.
Così il thriller imbastito dal regista e dalla coppia
di co-sceneggiatori Fabio Campus e Corrado Calabrò,
autore di ‘Ricorda di dimenticarla’,
romanzo a cui il film è ispirato, si colora di rosa
con una storia d’amore che va oltre ideologie, fanatismi
e preconcetti, per indicare la “vera” soluzione
ai tempi bui che ci aspettano da qui ai prossimi anni: l’amore
per l’uomo, per Dio di cui è immagine e somiglianza,
salva l’uomo da se stesso e dalla sua follia.
Tematiche che vengono opacizzate da una messa in scena ridondante
e fracassona come solo Martinelli in Italia e Tony Scott all’estero
sono capaci. Un virtuosismo della macchina da presa, spesso
inutile e dannoso, che privilegia l’estetica dell’immagine
alla sostanza dei contenuti (dialoghi e storia), non aiutato
da dialoghi non all’altezza del tema trattato ed un
cast a tratti imbarazzante e per lo più inadeguato,
a partire dall’inespressivo almodovariano Jordi Mollà.
Frutto di attente ricerche storiografiche per capire la varietà
e molteplicità del mondo mussulmano che in questa opera
viene messo duramente sotto accusa, il film veleggia su un
impianto drammaturgico sin troppo semplice e dicotomicamente
esemplificativo che non rende giustizia a quella mole di lavoro
che sta dietro alla sua preparazione. Il cinema di Martinelli,
può piacere o meno, sicuramente il compito maieutico
che si attribuisce, lo svolge con puntualità: stimolare
la discussione, spingere all’approfondimento delle tematiche,
aprire un dialogo su argomenti che troppo spesso si preferirebbe
lasciare sommersi dalla polvere del tempo che passa. [fabio
melandri]
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