Concepito
già qualche anno or sono dal regista d’adozione
romana e volutamente annunciato per il pre-campagna elettorale,
tenuto nascosto per mesi e blindata la visione in anteprima
al Barberini di Roma, finalmente arriva in sala l’attesissimo
lavoro di Nanni Moretti “intorno” al Presidente
del Consiglio. Tagliamo subito la testa al toro, non è
un film “su” Silvio Berlusconi. O almeno, lo è
in parte.
L’ultimo film di Nanni Moretti è un “contenitore”:
un calderone d’idee, sensazioni, delusioni, cadute,
rapporti, storie e percorsi. La figura del Cavaliere prende
corpo e forma assieme ai personaggi stessi, è un personaggio
nei personaggi, appare e scompare a più dimensioni,
a strati e livelli spazio-temporali. “Come potevano
pensare molti che avrei fatto qualcosa di politico?! Non ho
fatto e non avrei mai fatto un film di propaganda”
sono le parole che l’autore sottolinea, “cinque
anni fa sentivo di voler trattare un dolore familiare e l’ho
fatto (La stanza del figlio n.d.r.),
adesso sentivo il bisogno di raccontare un’attualità
e così è stato”.
Il personaggio di Silvio Orlando è un produttore decadente
che accetta, per credo e voglia di rivoluzione personale,
di realizzare la sceneggiatura della giovane e sconosciuta
interpretata da Jasmine Trinca. Si accorgerà solo successivamente
che il plot narra le vicissitudini di Silvio Berlusconi, accusandolo
gravemente di corruzione e sporchi giochi di potere. Anche
il rapporto con la moglie, qui una dosata Margherita Buy,
farà cadere ancor di più il produttore in una
fase di regressione cronica, immobilità psicologica,
salvato solo dal bellissimo rapporto con i due figli. Poi
coraggio e una scelta professionale all’ultimo tuffo
dopo alcune frenate, faranno il loro corso.
Dopo un inizio incerto e poco comprensibile, forse già
troppo in corsa, come dando assurte situazioni che lo spettatore
non ha ancora avuto modo di assorbire, il film si scioglie
bene. Ritrova un suo ritmo, alterna momenti di sorriso ad
altri di sconforto ed immedesimazione. I livelli sono molti:
c’è il rapporto padre-figli, quello coniugale
(che s’incrina sempre più), quello lavorativo
e professionale (con la Trinca e i tecnici del film che verrà
girato), quello personale, dell’autoanalisi, quello
col cinema stesso, le sue magie e i suoi insormontabili problemi.
A primo acchito è il solito Moretti, regia sobria,
niente sperimentazioni, niente montaggi post moderni. Nonostante
racconti storie grossomodo diverse ha tuttavia in mano sempre
le tre cose che ama: le persone, il contesto e gli oggetti.
Come ne La stanza del figlio
dove ripeteva prendendo in mano tazze e vasi di porcellana
“è tutto rotto in questa casa, tutto sbeccato,
tutto rovinato”, qua mette i figli in pozze di
Lego a cercare pezzi introvabili, a montare e smontare cose,
ideali e vite. Il gioco come ritorno all’infanzia e
ai suoi momenti di tenera ingenuità, ma anche metafora
di un’esistenza o di un lasso di tempo dove trovare
i pezzi giusti è complicato, quasi impossibile, vite
scomposte e rimontate, che spesso non tornano uguali ma si
accomodano come vengono. “Giallo, piatto, da dodici.
Papà non c’è, non lo trovo!”,
riassemblarci richiede pezzi che talvolta non possediamo più.
Moretti fa della pellicola anche un manifesto d’amore
al Cinema come entità, crea un film nel film, stranisce,
si confonde e fa confondere tra quello “vero”
e quello “fittizio”, usando come sempre intelligenza
e semplicità. La Trinca come autrice cerca un attore
che impersoni Silvio Berlusconi e chiede proprio a Moretti,
che nella pellicola fa la parte di se stesso “Avevo
pensato a lei per questa parte” – “No
guarda, un film su Berlusconi, è scontato, ormai si
sa tutto, non c’è più niente da sapere,
non credo m’interessi” – “Ma
se non ha ancora letto la sceneggiatura?!” –
“Eh lo so, ma è un po’ come se l’avessi
letta…”.
Moretti, durante gli anni Ottanta e Novanta è diventato
il portavoce del “chiuso”, del cinema tra le quattro
mura, girato in ambienti intimi, scarni e poco inclini alla
luce (Ecce Bombo, Palombella
Rossa). Poi è uscito allo scoperto nei recenti
film, ma la voglia di chiudersi in luoghi protetti, dove nessuno
possa arrivare è sempre forte. Orlando, distaccatosi
dalla moglie, ospita i bambini in una camera d’albergo.
Montano una canadese, poi tutti dentro e chiudono la cerniera.
Non basta più rinchiudersi in una stanza, serve altro,
serve altra protezione dall’esterno che bussa. Il vero
Berlusconi appare due volte, in registrazioni, in scene dove
la gente comune guarda alla tv e commenta: all’udienza
del processo di Milano e alla Commissione Europea quando dette
del “kapò” a Schultz. In una scena la Trinca
si pone una domanda forse legittima “In America
si fanno film drammatici e comici su Bush o il Capo di Stato,
in Italia no, perchè?”. Moretti sembra risponderle
indirettamente fuori dal set, ad una rarissima apparizione
televisiva “Fa tenerezza vedere un governo che ha
paura di un film dopo. E’ solo un film.”
Tirando le somme Il Caimano (termine
derivato dal libro omonimo di Franco Cordero) rompe le righe
sotto certi aspetti, crea un precedente dal punto di vista
politico-culturale prima mai segnalato. Non è un film
di propaganda, ma un’intelligente ritratto di una storia
d’attualità e di una certa crisi di valori (anche
cinematografici) dove si evince che per Moretti il Cavaliere
non è esente da colpe e quando, durante le scene, il
regista di Brunico picchia, picchia forte e senza esitazioni.
Bravura o meno, è sicuro sintomo di coraggio. Il finale
è molto dark, oscuro e quasi inquietante. Il caimano
lascia macerie intorno a se, lascia nemici, lascia conflitti.
Moretti qui unisce cinema, politica e sentimenti, stridendo
in parte con quell’ironia politica e quel surrealismo
che lo hanno reso noto in passato e che lasciano probabilmente
il segno più a lungo. Ma a volte prendersi sul serio
è un obbligo per chi ci sta ad ascoltare e un nostro
diritto. In un’epoca dove la notizia è alterata
e i giornalisti stanno sparendo o diventano anchorman di spettacolo
(Bruno Vespa), dove i comici fanno la vera informazione (Beppe
Grillo) e in TV regna solo il patinato sorriso di plastica
di gente con troppa aria nell’encefalo, dove ci drogano
gli occhi e c’imboniscono il cuore per non pensare alla
realtà che ci circonda, è bene stare all’erta.
Siamo il partito di noi stessi, qualunque partito (non) ci
rappresenti, perché “Non
ci sono santi” (Gabriele Romagnoli, Mondadori,
211 pp., 15€, consigliatissimo). Tra poco le elezioni
potrebbero avere un finale a sorpresa quanto quello del film.
Tutti alle urne e buon voto.
[alessandro
antonelli]