L’innocente
richiesta di quattro uova sconvolge la vita di una coppia
di sposi con figlio e cane al seguito, in vacanza nella splendida
villa sul lago. Due giovani ben educati (anche troppo), muniti
di guanti bianchi ed amanti del golf, si presentano a casa
di Ann (Naomi Watts) e George (Tim Roth). Dopo un iniziale
dialogo basato su convenevoli, Ann si infastidisce e chiede
ai due di andare via. Insospettito giunge anche il marito:
da questo momento, la situazione si capovolge irrimediabilmente.
Peter (Brady Corbet) e Paul (Michael Pitt) (questi i nomi
degli finti vicini), colpiscono alla gamba George, rendendolo
inoffensivo. Portano la famiglia in salone e qui comincia
il gioco al massacro con le vittime prescelte. Alla lecita
domanda: “Perché state facendo questo?”;
la risposta è di quelle senza appello: “Perché
no?”. È questo il fulcro del film, un ‘perché
no’ che elimina qualsiasi discussione o ipotesi di motivazione
(né un’infanzia infelice con genitori divorziati,
la noia o nemmeno la droga) e lascia spaesati, senza un appiglio.
I due ragazzi conducono il gioco: la famiglia felice ha dodici
ore prima di morire e la partita a golf verrà condotta
con educazione, considerato che “con le buone maniere
è più facile”. I carnefici si divertono
a lungo, senza farsi distrarre: non si può sottovalutare
“l’importanza dello spettacolo” e “ci
si annoia solo se chi soffre è muto”. Quando
invece qualcosa va storto, basta un click che riavvolga la
scena e tutto torna come prestabilito. L’occhio di Paul
(Michael Pitt) si rivolge alla cinepresa e cambia il corso
degli eventi: “E’ una scena – dichiara l’autore
- che causa una rottura nel legame film/spettatore, cosa per
me fondamentale”.
La
vera sorpresa della pellicola diretta da Michael Haneke è
che si tratta di un remake in lingua americana di un film
realizzato sempre dall’autore di Niente
da nascondere, ma con interpreti tedeschi. “Voglio
mostrare la realtà della violenza, il dolore, le ferite
inflitte da un essere umano ad un altro – spiega Haneke.
Quando nei primi anni Novanta ho iniziato a pensare al primo
Funny Games (1997), pensavo soprattutto
al pubblico americano. Reagivo ad un certo tipo di cinema
americano, alla sua violenza, al suo essere naif, al modo
in cui gioca con gli esseri umani. In molti film americani
la violenza è diventata un prodotto di consumo. Tuttavia,
poiché era un film in lingua straniera e poiché
gli attori erano sconosciuti in America, il film originale
non ha raggiunto il suo pubblico”.
Spinto dal produttore Chris Cohen a portare negli Stati Uniti
la sua opera austriaca, Haneke propone attori internazionali
(“Ho posto una sola condizione: che la protagonista
fosse Naomi Watts, per me la pura incarnazione del personaggio”),
lingua inglese, stessa sceneggiatura e medesime scene rispetto
alla versione tedesca. “Mi sono divertito a ricreare
qualcosa che fosse il più identico possibile a una
cosa già esistente. Ne avevo sottovalutato la difficoltà:
tutto doveva aderire perfettamente al quadro stabilito in
partenza. In alcuni momenti sono arrivato a maledirmi per
aver scelto un’inquadratura piuttosto che un’altra
dieci anni prima!”.
Quello che lascia questa coinvolgente versione fotocopia (l’operazione
riporta alla memoria il secondo Psycho,
diretto da Gus Van Sant) è sempre un forte senso d’impotenza
e d’ineluttabilità, dominato dalla violenza che
pervade la scena senza mostrarsi. Una sadica critica della
società dello spettacolo, ai danni di uno spettatore
suo malgrado partecipe, quindi colpevole. I drughi di Arancia
meccanica (Stanley Kubrick, 1971) sono ancora tra noi,
però oggi nessuno li ferma.
[valentina venturi]