Perché
ha deciso di rifare Funny Games negli Stati Uniti, in
inglese?
All’inizio è stata soprattutto l’idea
di un produttore. Ci ho pensato e mi sono detto che
una versione in inglese era forse il modo migliore di
raggiungere l’obiettivo che mi ero dato dieci
anni prima. Il primo film non aveva raggiunto il pubblico
cui era destinato, ovvero il pubblico anglofono, che
è quello che consuma di più la violenza
al cinema. Purtroppo, però, la lingua tedesca
è stata un ostacolo per il successo del film
in America, dove era stato distribuito solo nel circuito
di sale d’essai.
In seguito ho ricevuto altre richieste di remake: per
Niente da nascondere, che ha avuto un buon riscontro
in America e, per quanto possa sembrare stupefacente,
anche per Il Settimo Continente. Non è stato
ancora deciso nulla, ma Ron Howard ha già un’opzione
su Niente da nascondere.
L’idea di fare un
remake scena per scena, cambiando semplicemente gli
attori, è sua o della produzione?
E’ mia. Poiché il film è sempre
di grande attualità, non immaginavo cosa avrei
potuto cambiare per la versione americana. E poi era
una sfida personale. Mi chiedevo se sarei stato in grado
di rifare il film in circostanze diverse.
Nel girare il remake mi sono posto un obiettivo del
tutto inverso a quello abituale: anziché dedicarmi
ad una creazione del tutto nuova, mi sono divertito
a ricreare qualcosa che fosse il più identico
possibile a una cosa già esistente. Avevo decisamente
sottovalutato il grado di difficoltà del dover
far corrispondere esattamente ogni inquadratura all’inquadratura
originale.
Nel momento in cui si inizia a girare, si decidono le
inquadrature anche in base agli attori, facendo variazioni
a seconda del loro modo di reagire ed esprimere quello
che il regista ha in mente. In questo caso non era possibile.
Tutto doveva aderire perfettamente al quadro stabilito
in partenza, con le piccole difficoltà quotidiane
che questo comportava. In alcuni momenti sono arrivato
a maledirmi per aver scelto un’inquadratura piuttosto
che un’altra dieci anni prima…
Non ha mai dubitato della
pertinenza del progetto?
No. Il film è destinato fondamentalmente a quelli
che non hanno visto il primo Funny Games. E’ la
sua principale ragione di esistenza. In ogni caso penso
che gli spettatori che conoscono la prima versione possano
comunque apprezzare la seconda, e divertirsi a metterle
a confronto.
I coproduttori sono europei,
Naomi Watts è australiana, Tim Roth inglese.
Non le sembra una situazione paradossale rispetto a
un film che vuol essere americano?
Sono i casi della coproduzione. Gran parte del finanziamento
fa comunque capo a Warner Independent, che è
una società americana. Per quanto riguarda gli
attori, non è stata una cosa voluta. Ho semplicemente
voluto i migliori per ognuno dei ruoli.
In questo film il cast
ha un’importanza particolarmente rilevante…
Si. Per quanto mi riguarda ho posto una sola condizione:
che la protagonista fosse Naomi Watts, per me la pura
incarnazione del personaggio.
Dovevo essere, in ogni caso, molto meticoloso nella
scelta degli attori. Nessuno dei cinque personaggi principali
doveva deludere rispetto al primo film…
Ha chiesto agli attori
di lavorare partendo dalla versione austriaca?
Tutti hanno visto il primo Funny Games prima di accettare
di far parte del progetto, ma poi mi sono raccomandato
affinché non lo vedessero di nuovo. Non volevo
che la visione interferisse con la loro recitazione
e che finissero per imitare gli attori precedenti.
È stato mai tentato
di mettere a confronto la loro recitazione con quella
degli attori precedenti?
Era difficile sfuggire a questo. A volte mi sono lasciato
andare a dei confronti senza volerlo, in modo inconscio
e inconsapevole. Per me, tuttavia, non è una
cosa grave. Succede spesso a teatro: ho messo in scena
molte volte le stesse opere con attori differenti. Aiuta
a gettare una nuova luce sui personaggi.
D’altra parte, quando vedo le due versioni di
Funny Games, non vedo lo stesso film anche se, nello
stesso tempo, sono identici nella forma…
Sono passati dieci anni
dalla versione originale. Pensa che la scena del telecomando,
il suo intervento nel flusso narrativo con l’effetto
rewind, sia ancora attuale?
Non è un escamotage utilizzato nel corso del
tempio così tanto da apparire oggi fuori moda.
Conosco delle persone che hanno scoperto Funny Games
solo attraverso il remake e l’effetto di questa
scena – telecomando/rewind, lo sguardo in camera
di Michael Pitt - hanno ancora un impatto molto forte.
E’ una scena che causa una rottura nel legame
film/spettatore, cosa per me fondamentale.
E’ un film cattivo?
Si, nella misura in cui dà soddisfazione a colui
che prova piacere nello spettacolo del terrore. A un
certo punto, però, lo spettatore è come
partecipe di quello che accade, e non può che
porsi delle domande sul proprio ruolo. E il film non
sembra consolarlo per la sua posizione, anzi lo rimprovera.
E’ in questo che è cattivo.
Chi è che recita
nel film: loro, voi, noi?
Tutti. Nessuno è innocente. Nemmeno le vittime:
non possono fuggire ma, in fondo, sono loro che hanno
scelto di barricarsi in una grande casa ultra protetta….