La vita
di Antonio Perrone (Claudio Santamaria, in un altro ruolo
da malavitoso) è stata intensa e senza limiti. Tutto
comincia nel 1977, quando il giovane di buona famiglia pugliese
decide di guadagnare bene senza faticare: inizia a spacciare
eroina. Il ragazzo ama i soldi facili, il potere, la droga
e la fidanzata nonché futura moglie Daniela (Valentina
Cervi, mai entrata nella parte).
Il giovane di ricca famiglia del sud Italia nell’arco
di un anno, tra il 1982 e il 1983, diventa un piccolo boss
della mala salentina con un solido traffico di eroina, acquistata
a Palermo e una bisca clandestina come appoggio logistico.
Per avere maggiore rispetto dall’ambiente, fa uscire
di prigione l’“asso di bastoni” (così
vengono chiamati i boss) Gianfranco (Daniele Pilli), che uccide
senza troppi scrupoli. I soldi aumentano, ma anche i rischi.
È il caso di unirsi ad un padrone o continuare a guadagnare
da soli? A decidere per lui ci sarà il carcere: nel
1983 a Lecce accetta di entrare a far parte della Sacra Corona
Unita, la così detta Quarta Mafia, che tenne per un
decennio sotto scacco la Puglia. Diventare un affiliato lo
condurrà alla prigione, secondo il regime carcerario
del 41 bis.
Liberamente tratto dal romanzo autobiografico dello stesso
Perrone Vista d’interni
Manni Editori, il film inizia con la voce fuori campo del
protagonista che scrive una lettera alla moglie. Sono quindici
anni che vive lontano da tutto, nel carcere di massima sicurezza
dell'Asinara, secondo il 41 bis. Il titolo Fine
pena mai si riferisce proprio ai 49 anni di reclusione
a cui è stato condannato e alla prolungata lontananza
dalla moglie.
Girato tra il Salento e il carcere dell'Asinara, nell’intento
dei due giovani documentaristi Davide Barletti e Lorenzo Conte,
il film dovrebbe essere “il ritratto di un uomo e di
una stagione della nostra storia recente”. La lenta
e imprescindibile discesa all’inferno di Perrone nella
realtà è storia privata e insieme storia nazionale.
Purtroppo però alle intenzioni, non fa seguito una
conferma sullo schermo. Il film non coinvolge: Santamaria
non riesce a dare al suo viso la giusta sconsideratezza, mista
alla voglia di primeggiare necessaria al ruolo. Si ha la sensazione
che da un momento all’altro sbagli dialetto e torni
ad essere il Dandi di Romanzo Criminale.
La Cervi, invece, offre per gran parte del film la stessa
espressione, fissa e impaurita: cambia molti abiti e taglio
di capelli, secondo la moda dell’epoca, ma non modifica
la poca intensità espressiva. I componenti della Fluid
Video Crew hanno studiato le caratteristiche di Martin Scorsese
di Goodfellas e di Michele Placido
in Romanzo Criminale, ma senza
farle proprie, senza riuscire a renderle nuove perché
personali. [valentina venturi]