Dopo
Dog Soldier e The
Descent, pellicole caratterizzate da una relativa unità
spazio-temporale in cui un piccolo gruppo, chiuso in uno spazio
claustrofobico viene attaccato dall’esterno da “creature
altre”, il talentuoso regista inglese Neil Marshall
tenta il salto in alto con la sua ultima creature Doomsday,
muovendosi su scenari più ampi, molteplici fili narrativi
in uno scenario post-apocalittico che trae ispirazione ed
omaggio a pellicole come 1997 Fuga da
New York e Mad Max Oltre la sfera
del tuono di cui ne recupera atmosfere ed estetica,
mantenendone lo spirito produttivo indipendente e low budget.
A pochi giorni dalla scoperta del virus ‘Reaper’
– milioni di persone risultato infette in Scozia, luogo
da dove è partita l’epidemia mortale.
Il Governo non ha scelta e proclama la nazione “zona
calda” mettendo la popolazione in quarantena con la
vaga speranza di limitare il contagio. Isolata dal resto del
mondo, quella che una volta era la Scozia, diventa una terra
di nessuno dimenticata da tutti, dove l’epidemia è
libera di diffondersi e di uccidere milioni di persone imprigionate
nelle loro stessa terra.
Venticinque anni dopo, quando una nuova epidemia dello stesso
virus scoppia nel centro della sovrappopolata Londra, appare
chiaro a tutti che i piani del Governo, che erano sembrati
perfetti, sono andato completamente all’aria…
Come nei film precedenti, Marshall mostra una predisposizione
e preferenza per forti ruoli femminili, affidandosi alla performance
fisica della protagonista Rhona Mitra (The
Number 23, Shooter) regalandoci
dopo la Linda Hamilton di Terminator
e la Sigourney Weaver di Alien
un nuovo esempio di femmina dominante, capace di riempire
lo schermo. “Un vero soldato, - la descrive il regista
- un’assassina spietata che vive in un futuro prossimo
e la quale, durante il cammino, ha perso la sua anima. E’
un prodotto del sistema nel quale è cresciuta ma ha
una storia diversa alle spalle ed è molto legata emotivamente
agli eventi narrati nel film. La sua missione, vale a dire
trovare la cura per il virus letale, è in realtà
una sorta di viaggio di redenzione e di ricerca della propria
anima. Deve servire a farle ritrovare la sua umanità,
in una sorta di ritorno a casa per ritrovare ciò che
ha perso quando era bambina.”
Come era facile da prevedere, dopo i due ottimi film precedenti,
crescendo le aspirazioni in un continuo mettersi in gioco,
Doomsday si manifesta come un
film pretenzioso, imperfetto, un patchwork di generi e rimandi
in cui non tutto torna. Nella prima parte Marshall dimostra
un gran talento nel costruire la tensione, nel presentare
senza fronzoli i personaggi le cui psicologie saranno anche
tagliate con l’accetta, ma risultano funzionali alla
storia che si dipana davanti ai nostri occhi con corpi decomposti,
amputati, sfracellati, smembrati, corpi decapitati in cui
le teste finiscono per impattare contro la macchina da presa
e schizzi di sangue ad imbrattare le lenti delle stesse.
Con il procedere dei minuti la sovrabbondanza di elementi
eterogenei presenti, incapaci di amalgamarsi tra di loro in
una soluzione equilibrata ed omogenea, iniziano a dare origine
ad una serie di reazioni di cui il regista sembra perdere
il controllo, in un progressivo sbrodolamento logico-narrativo
condito da un barocchismo estetico che invece di dare ordine
si autoalimenta del suo stesso caos regalando perle di divertimento,
ma che come in un dolce con troppo saccarosio finisce per
dare assuefazione e nausea.
Un vero peccato, perché il talento c’è,
serve una maggiore maturità e forse un pizzico di umiltà
in più per confermare un autore di cui attendiamo con
ansia alla sua prossima opera, quella della effettiva consacrazione
o declino. [fabio melandri]