Escono
quasi in contemporanea e con diversa visibilità mediatica
Shooting Silvio e Death
of a President, nei quali, in diversi contesti e con
diverse modalità, si immagina la morte di un importante
politico d’oggi.
Ma se il film italiano si pone sul lato introspettivo del
potenziale assassino, ed è una pellicola di pura fiction,
il film di Gabriel Range, un inglese che vive negli States,
è solidamente un mockumentary, vale a dire un film
strutturato come un documentario che ricostruisce avvenimenti
inventati di sana pianta.
Esempi recenti del genere possono essere l’italiano
La leggenda di Tony Vilar o il
contrastante Borat.
Death of a President, dal punto
di vista tecnico, li supera entrambi. Il punto forte della
pellicola è racchiuso proprio nell’abilità
di mescolare immagini di repertorio, ricostruzioni e scene
recitate senza perdere quella soluzione di continuità
propria di un’assoluta verosimiglianza con il reale.
Molto ben fatte, dunque, sia le scene con Bush, Cheney e i
vari (finti) collaboratori intervistati da Range, sia le scene
di massa, come le proteste di piazza o il funerale.
La ricostruzione, dunque, di una protesta di piazza in occasione
di un discorso dell’attuale Presidente a Chicago, che
sfocia in un attentato che porta alla morte di Gorge W. Bush,
è del tutto verosimile, così come lo sono le
immagini del funerale – riprese dalle esequie di Reagan
– incrociate con un discorso di Cheney, o le interviste
con le guardie del corpo o gli speech-writer della Casa Bianca.
Un piccolo gioiello da questo punto di vista, costato poco
meno di tre milioni di euro, spesi per acquisire i diritti
del materiale di repertorio e per lavorare di cesello in sede
di post produzione.
Ma Death of a President mostra
il fianco nella costruzione della tensione, nell’appassionare
il proprio pubblico alla narrazione. Essendo un finto documentario,
non si può basare sulla forza dei fatti, sulla curiosità
del retroscena per non perdere il ritmo, per riuscire fino
in fondo a risultare credibile. Deve costruire una impalcatura
credibile fondata sulla costruzione delle sequenze e sull’aspettativa,
sull’incentivo ad andare oltre, a sapere come va a finire.
Paradossalmente il meccanismo funziona fino al momento, noto
a tutti grazie al titolo e all’aggressività dei
manifesti, dello sparo e della conseguente morte di Bush.
Poi il film sceglie di addentrarsi nella ricostruzione processuale
del post-attentato, invece di seguire la più feconda
strada dell’analisi del cambiamento e degli sviluppi
della politica internazionale all’indomani di un evento
di tale portata.
Così risulta impossibile allo spettatore appassionarsi
ai particolari di una vicenda così circostanziata e,
nelle dinamiche globali che possibilmente potrebbero accadere
dopo una tale situazione, irrilevante, il film si perde nei
rivoli del didascalico.
Interessante operazione, che poteva essere costruita meglio,
ma che lascia il segno in quanto a credibilità e perizia
tecnica.
[pietro salvatori]
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