Prima di iniziare una doverosa premessa: questa recensione
tratta del film Borat, con annesso
kilometrico sottotitolo, così come verrà visto
dal 99% del pubblico del belpaese, e cioè doppiato
in italiano.
Precisazione imprescindibile, poiché, tanto per fare
un esempio, se alla proiezione stampa organizzata per la Festa
del Cinema dell’ottobre scorso i critici in sala si
stavano sentendo male dal ridere dopo nemmeno metà
film, alla sua riproposizione propedeutica al lancio in sala,
dopo venti minuti regnava il più assoluto silenzio.
L’operazione Borat-Italia è un brodino riscaldato
dell’immenso successo che lo scorrettissimo e intelligente
Sasha Baron Cohen ha avuto nel lancio (più o meno)
internazionale della pellicola.
Il film, infatti, si struttura come un mockumentary surreale,
in cui un attore, americano ed ebreo, si finge un reporter
kazako, con tanto di tradizioni natie al limite del buongusto,
mutandoni retati e soprattutto con un inglese macchiettistico
ed esilarante, per andare ad indagare nelle più disparate
situazioni della società americana: sue vittime sono
insegnanti di bon ton e di umorismo, ignari passanti, organizzatori
di rodei, star come Pamela Anderson, perfino esterrefatti
membri del Congresso.
Borat, con il suo linguaggio sgangherato, la sua finta ingenuità,
il sottile e calcolato gusto dell’orrido, irrompe nelle
sfumature nascoste del vivere in America, costruendo un finto
documentario sull’esilarante ed assurdo approccio alla
realtà e alla socialità di gran parte delle
sue vittime.
Rimane un po’ difficile credere che nessuna delle sequenze
inserite nel film contenga elementi di recitazione, che sia
tutto spontaneo (si pensi alla sequenza con la Anderson).
Ma nonostante ciò il punto di forza di Borat rimane
quella spontaneità, quei ritmi e quei tempi comici
tipici del popolo della strada, di un certo approccio surreale,
che vivono dell’immediatezza e della verosimiglianza,
senza le quali l’effetto si smarrisce.
Il doppiaggio italiano massacra la pellicola proprio da questo
punto di vista. Non tanto per la voce di Cohen, che Insegno
riproduce quasi fedelmente, rispettandone tempi e battute,
quanto per il cercare di restituire un senso cinematografico
alle semplici persone della strada, smarrendo del tutto la
dimensione documentaristica del girato, vero punto di forza
di tutta l’operazione inesorabilmente (senza contare
che un kazako che parla un inglese grottesco in America non
potrà mai fare il paio con un kazako che adotta un
italiano stentato nella Grande Mela).
Questo tipo di trasformazione, che smarrisce per strada le
intenzioni del film, fa scivolare malinconicamente Borat nei
confini del trash, rendondo così appetibili e gustose
solo le sequenze di palese nonsense e quelle più smaccatamente
ammiccanti.
Un’occasione persa, dai distributori, poco coraggiosi
e lungimiranti nel lanciare il film sottotitolato, e dal pubblico
pagante, che baratterà quattro risate a buon mercato
con quella che in realtà è una pellicola geniale.
[pietro salvatori]
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italiana
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