“Hanno
il cervello imbottito di ovatta. Sono brutti, parlano male,
camminano male. Gli suoni la grande musica dei secoli ma loro
non sentono. Per molti la morte è una formalità.
C’è rimasto ben poco che possa morire”.
(Charles Bukowski)
Quando
arriva la sera e il rumore si fa meno intenso, a Los Angeles,
la città degli angeli senz’ali, Cameron, regista
televisivo, sul finire di una giornata strana scende dalla
sua auto di lusso, fa qualche passo. Inizia a nevicare. Mentre
il fuoco divora poco più in la un’auto colma
di peccati e le fiamme collidono con il freddo, chiama la
sua donna: "Ti amo". Il rancore è dietro
le spalle ormai, la notte sarà il sipario che fa riflettere.
Ma la mattina una nuova furia ci avvolgerà togliendoci
la memoria.
Paul Haggis fa centro per la seconda volta consecutiva dopo
l‘affascinante gancio messo a segno con la sceneggiatura
di Million
Dollar Baby di Clint Eastwood. Stavolta anche in
veste di regista, dimostra tutte le sue capacità compositive
intellettuali, di struttura narrativa e di sintesi. Un film
intelligente perché non banale nonostante il rischio
della quotidianità e dei suoi stereotipi, che si sorregge
sulla scrittura e sull’intreccio senza effetti speciali
o trame forzate. La comunità multietnica losangelina
e le continue incomprensioni razziali sono lo sfondo a queste
storie di lotta moderna, dove il “tutti contro tutti”
sembra essere la regola primaria. Vite arrivate al limite
di una sopportazione frenetica, di un insegnamento sbagliato,
di una precaria soglia di tolleranza e di una società
guasta dall’interno.
E’ l’incomprensione che ci frega, il non vedere
oltre. Cinesi, neri, ispanici, bianchi, indonesiani, mediorientali,
russi, italiani. Culture diverse, storie differenti, modi
e costumi opposti. C’è solo da imparare ad essere
curiosi e concepire il rispetto del prossimo senza offuscare
o annientare anime diverse. Ryan è un ragazzo di colore,
adora l’hockey, ascolta e scrive canzoni country. Un
nero che segue filosofie bianche è riconosciuto bugiardo
o folle. Quando invece i folli siamo noi, che incastriamo
tutto in scatole con il cartellino appropriato perché
ci fa comodo così, perché seguiamo il flusso
delle stronzate che ci arrivano senza filtro, senza provare
ad aprire l’encefalo ad angolo giro.
Le vite più o meno barcollanti d’individui comuni
s’infrangono, come allude il titolo, l’una con
l’altra. Non ci si sfiora, non si cerca il contatto.
Quando però avviene è per tutti un impatto fortissimo.
Se ne renderanno conto Matt Dillon, Sandra Bullock, Don Cheadle,
Brandan Fraser, Michael Pena e gli altri, costretti a sbattere
in pieno moto vettoriale su esistenze troppo vicine per essere
viste.
Paul Haggis usa il pretesto delle razze per raccontare storie
di persone, di uomini, di donne, delle loro paure all’inizio
del nuovo millennio, quando sembra che tutto stia per soffocare,
detonarsi per poi ricominciare. Si cambiano serrature alle
porte di casa, inferriate alle finestre, allarmi di ultima
generazione, armi da fuoco, guardie, cani, raggi laser, robot,
Goldrake e Mazinga. Rinchiuderci ci da sicurezza. Allontanarci
e odiare è più semplice di confrontarsi. Qualche
dollaro speso e tutto è più semplice, il PIL
aumenta, si pensa meno e si guarda la tv. Ricordo una frase
di Kurt Cobain: "Insegnano alle donne a difendersi dalle
violenze e dalle aggressioni dei maschi. Dovrebbero magari
insegnare agli uomini a non farlo".
Il caos, l’odio, la vendetta, la violenza sono figlie
di una sottocultura urbana, del consumismo di massa, del trionfo
dell’estetica sul contenuto, della quantità sulla
qualità. La comunicazione è sempre minore è
più superficiale nonostante la tecnologia unisca il
mondo casa dopo casa, lingua dopo lingua ("Ho cambiato
la serratura ma deve cambiare la porta, è difettosa",
"Non fare il furbo, fai tuo dovere, tu cambia serratura").
La regia è sobria ma intensa, i molti primi piani sostengono
il pathos di tensione nei rapporti e le espressioni sono la
chiave di lettura di molte scene. Carrelli, camera a mano,
dolly, assi verticali dimostrano una notevole versatilità
nell’uso della mdp. Inoltre le riprese attente su svariati
dettagli od oggetti consacrano un mondo nel quale tutti siamo
quello che abbiamo. Il seme dell’odio si propaga, i
sensi di colpa ci divorano lo stomaco e Paul Haggis è
qui abile nel sussurrare che il bene e il male convivono in
ognuno di noi. Si alternano come il giorno e la notte sulle
nostre facce, siamo eroi e assassini. Siamo giusti e sbagliati,
consapevoli o inconsapevoli. Siamo solo uomini e la perfezione
non ci appartiene.
Aprile 1992: la rivolta di Los Angeles per un pestaggio razzista
su un automobilista di colore da parte di agenti bianchi lascia
il segno. 4 giorni di lotta, la città a ferro e fuoco,
rancore. Ancora oggi la ferita sembra aperta.
Novembre 2005: i quartieri poveri delle banlieue di Parigi
insorgono per un evento simile, fomentando la rivolta di mediorientali
e afro-europei. Ancora paura, ancora violenza. La storia c’insegna
che gli eventi si ripetono. Chiudere gli occhi e tappare le
orecchie non servirà. Questo non è un saggio
di sociologia o di antropologia dei popoli, vuole essere ed
è solo una recensione di un film, ma filmare la realtà
è come viverla in prima persona, ci siamo dentro. In
un meraviglioso videogames di Hideo Kojima, Metal Gear Solid
3, Jane, una donna paramedico consola Solid Snake dopo una
delusione "Quando le cose si mettono male, a volte i
film ti salvano la vita". Senza dubbio.
Ma se noi siamo già ammalati di acredine, corrosi nel
vortice senza fine della rabbia e della voglia di redenzione,
ammorbati da tossine d’intolleranza qualcuno può
avere ancora una speranza. Ma è nostro dovere passare
i consigli giusti. A chi ancora non è stato modificato,
chi può ancora crescere con i sogni al collo e il buon
senso sulle spalle, come un mantello magico e trasparente
che blocca i proiettili dei grandi. Per questo, i bambini
ci salveranno.
[alessandro antonelli]