Quando la
vita ti mette alle corde, hai solo due cose da fare: o affrontarla,
o fuggire. Due realtà diverse, ma così immensamente
uguali si incontrano in una palestra sporca a maschilista. Lei, Maggie,
la vita l’ha affrontata e attraversata. Certo non risolta, ma
ha provato a sperare in qualcosa di migliore. Lui, Frank, dalla vita
è fuggito e la sua unica figlia non lo vuole più vedere.
Ma è un grande allenatore di pugilato e i suoi allievi diventano
campioni. Maggie la vuole pendere a pugni quella vita, vuole superare
il disagio per una famiglia inesistente, per la povertà, vuole
prendersi un’opportunità. E vuole vincere. Frank si oppone.
Perché è una donna. Perché ha già trent’anni
ma anche perché è spaventato da tutta quella forza,
quella vitalità che pulsa e vuole esplodere. Diventa il suo
allenatore, il suo cutter, colui che aspetta all’angolo del
ring il pugile e lo prepara al nuovo round. Colui che asciuga il sangue
delle ferite, che cercherà di riscattare una vita non proprio
felice. La propria e quella di Maggie. A sua volta la ragazza asciugherà
le ferite dell’anima di quel vecchio e cercherà anche
grazie a lui il riscatto per una vita migliore.
Non è una storia d’amore. E forse neanche d’amicizia.
Solo tanto sentimento che va al di là di qualsiasi legame.
Al di là della vita e della morte. Un sentimento raccontato
senza scontata retorica, ma che si impregna della fatica e del sudore
di una squallida palestra. È un film doloroso, che ti entra
dentro e ti stringe lo stomaco. La storia di due solitudini lontane
che si incontrano, si affrontano, per rimettere insieme i frantumi
di speranze spezzate. Per conservare la dignità della vita
e dei ricordi.
Meritatissimo l’Oscar a Hilary Swank ( già Oscar per
un’altra intensissima interpretazione in Boys
Don’t Cry) e a Morgan Freeman come attore non protagonista,
che nel film è una presenza silenziosa ma incisiva. Oscar anche
come miglior film e alla regia, che premiano la scelta di Eastwood
di raccontare una storia coraggiosa, tutta incentrata sulle tonalità
chiaroscurali della vita e dell’anima. [sara
lucarini]
Mentre scrivo
queste poche righe, Million Dollar Baby
ha da qualche ora conquistato 4 Oscar nella magica serata di Hollywood
che incorona l’America del cinema. Miglior film, miglior regia,
miglior attrice protagonista, miglior attore non protagonista. A parte
la celebrazione pubblica, premi o non premi, siamo di fronte ad un
film grandioso. Clint Eastwood centra un fascinoso bis dopo Mystic
River con questa gemma di toccante bellezza emotiva. L’idea
della ragazza pugile e dell’ascesa sportiva poteva facilmente
tentare facili guadagni con poca fatica attirando oche da passeggio
con scarso gusto. Tutt’altro.
Partendo prevenuto nei confronti del plot sono invece uscito dalla
sala con un vuoto dentro. Un cratere d’affetto che il film mi
ha elegantemente scavato in circa 140 minuti. Il film è di
un incedere lento ritmato, proprio come i vecchi western dell’adesso
regista ex ispettore Callaghan, con una musica country ad accompagnare
molte scene quasi fosse un saloon in mezzo al deserto. La pellicola
è umile (nonostante i 30 milioni di dollari spesi per la realizzazione)
e tesa come i bicipiti della Swank nei diretti sul ring, composta
da una prima parte agonistico sportiva e l’inserimento dei personaggi
chiave, poi dopo la metà svolta sull’anima e prende direzioni
esistenziali. Ed è qui la sorpesa. Ad attenderci dietro la
guardia, un jab di una violenza emotiva disarmante ci arriva sugli
occhi a infrangere le pupille e a fare male. Le lacrime e i singulti
che scaturiscono sono sinceri e veri, non strappati ad una scena straziante
messa lì per caso senza criterio. Se si piange è perché
il film è di un’intensità profonda e gli attori
perfetti, che non lasciano il tempo di sentire il distacco tra noi
e il grande schermo. La riuscita e impeccabile caratterizzazione dei
personaggi e il realismo ci trasportano dentro agli stati d’animo
dei protagonisti senza timori, ci avvincono con naturalezza, grazie
anche alla sceneggiatura priva di sbavature, che non mostra nessun
segno di scompensi o vuoti narrativi.
La regia è scarna ed essenziale in sintonia del tema e del
messaggio, povera ed umile come Maggie, il personaggio di Hilary Swank.
La ragazza è semplice, ma penetrante, combattiva e ostinata.
Ma anche di una tragica e spiazzante dolcezza. Morgan Freeman, che
non sbaglia più un colpo, è grandissimo. Poetico come
in Le ali della
libertà, un evanescente figura letteraria tra le memorie
di Bukowski ed Hemingway. Clint Eastwood, lo scontroso e passionale
coach di una palestra dissestata che legge Yeats, ha perso ormai ogni
credo. Avrà una possibilità di redenzione proprio come
lui la sta avendo nella vita da regista dopo il lungo passato da attore
in “penombra”.
Un legame di storie ed eventi che odorano di sudore e sangue quindi,
sentimenti da palestra dove il tappeto non è quello persiano
che si stende in salotto, ma un posto dove combattere, dove si vince
o si perde, si gioisce o provoca dolore. Come la vita, vero luogo
di fitness ed esercizio sentimentale. Perché lo sport è
una miccia, sa accendere l’animo umano come poche altre entità
sanno fare. E se poi ci toccano le cose a cui teniamo, ce le rovinano
o ce le rubano, diventiamo spenti e desolati, “solitari y final”
direbbe Osvaldo Soriano. Definitivi.
L’opera ha tutto quello che serve per essere un gran film, Oscar
e Golden Globe a parte. I premi a volte vanno a chi non se li merita.
Qui stiamo legittimando un podio. Il lungometraggio è pieno
di dettagli e piccoli gesti, curato e resistente alle intemperie invernali.
Ma caldo come un camino che svampa tizzoni e fa arrossire gli occhi.
E’ un’altra dimostrazione di come il cinema, anche se
a volte milionario e hollywoodiano, metta insieme idee originali e
intelligenti, scelga il cast adatto come una squadra di calcio, abbia
voglia di raccontare e non di stupire e dunque ci sorprenda, ci emozioni
con forti e coinvolgenti travagli.
Come un cowboy senza casa e senza destino Clint Eastwood, verso la
fine, chiude una porta ripreso in campo lungo da dietro le spalle,
lasciando il passato a raccontare di se, sperando di leggere magari
un giorno una lettera infilatagli da sotto la porta di casa. Ma ormai
è tardi. Tutto è già successo e guardarsi dietro
ha poco senso. Se la vita dura dodici lunghi round è bene,
come dice Eastwood “proteggersi sempre, non abbassare mai la
guardia” perché, non si sa mai, potremmo sempre arrivare
in fondo e vincere ai punti per poi appendere i guantoni al muro e
goderci le ferite, i lividi e i ricordi che lasciano il segno.
[alessandro
antonelli]
Ci sono
autori che con il passare del tempo migliorano, come i vini. Le tematiche
si fanno più profonde e sentite; lo stile si ripulisce di orpelli
e barocchismi per mettersi al servizio di storie e personaggi.
Uno di questi autori è il magnifico settantacinquenne Clint
Eastwood che oggi, dopo 57 film di cui 46 da protagonista e 25 da
regista, presenta una delle sue opere più profonde e riuscite.
Chi si aspetta il solito film sportivo alla Rocky
- formazione, successo, caduta e rivincita - ha sbagliato indirizzo.
Il mondo della box (la sceneggiatura è ispirata ad un racconto
della raccolta Lo sfidante di F.X. Toole),
tratteggiato attraverso particolari e dettagli mai troppo insistiti,
gesti e volti che lasciano un segno indelebile nella memoria dello
spettatore, rimane sullo sfondo. La forza delle immagini traccia un
microuniverso fatto di povertà, sofferenza, sacrifici, sogni
ed illusioni, voglia di emergere e rassegnazione al tempo che passa.
Un film che concentra la sua attenzione sui personaggi, tratteggiati
con sofferta partecipazione ed interpretati con una fisicità
inusuale da Clint Eastwood (i primi piani sul suo viso rugoso, sono
una magnifico trattato di storia del cinema), Morgan Freeman (eccellente
in una recitazione fatta di semitoni e venata da sguardi malinconici
che toccano nel profondo) ed Hilary Swank (che evidentemente nei ruoli
mascolini si trova a suo agio, in una performance di pancia nella
prima parte, emozionale affidata a micro-recitazione facciale nella
seconda).
Un film costruito intorno alla figura di Maggie, aspirante pugile
non più nel fiore degli anni della vita sportiva di un atleta,
in cerca di un ricatto personale e sociale attraverso il mondo maschilista
della box. Un rapporto filiare che si instaura da subito tra la pugile
ed il suo allenatore-mentore che va a sostituire quella dolorosa incomunicabilità
tra padre e figlia genetica che attraversa come un filo rosso la più
recente filmografia eastwoodiana (Potere Assoluto).
Un rapporto sviscerato e rappresentato senza retorica e facili commozioni
in tutta la seconda parte del film, quella fuori dal ring e di cui
non diciamo di più per non rovinare la visione allo spettatore.
Un film che indaga sugli effetti della violenza sui corpi degli uomini.
Formatosi in filoni cinematografici in cui la violenza e la morte
erano rappresentate in maniera fumettistica ed indolore (dalla trilogia
del dollaro di Sergio Leone alla saga dell’Ispettore Callaghan),
da Gli Spietati in avanti, Eastwood ha
descritto minuziosamente il dolore che si prova a togliere la vita
ad un uomo, i suoi effetti devastanti su cose e persone; i colpi di
pistola feriscono ed uccidono, i pugni offendono ed indeboliscono
i corpi lasciando segni e menomazioni.
Un film girato al ritmo di un blues, con una fotografia fortemente
chiaroscurale. Una regia classica alla John Ford, un western moderno
fatto di incontri-scontri, che parla di etica e moralità, del
confronto tra uomini su un ring, con il protagonista solitario e sconfitto
che invece di cavalcare all’orizzonte verso il sole calante,
si incammina lungo un oscuro corridoio verso una luce accecante ed
una porta che si chiude lentamente dietro di se. Un film che emoziona
e commuove in profondità; un film sincero che ti entra nel
profondo per non abbandonarti più.
[fabio melandri]