“Se
solo un uomo dichiara e segue le proprie convinzioni, tutto
il mondo si riunirà intorno a lui.”
Questa di Ralph Waldo Emerson era una delle citazioni preferite
di Robert F. Kennedy e come tale il fratello di JFK si comportava
nella sua vita pubblica. Vita stroncata da colpi di pistola
nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles, sede
del comitato per l’elezione del Senatore Kennedy alla
Presidenza degli Stati Uniti, all’alba del 5 giugno
1968. Un colpo di pistola che seguì di pochi mesi quello
che pose fine alla vita del leader dei diritti civili Martin
Luther King Jr a Memphis.
Queste la basi di partenza di Bobby,
il film che con una costruzione a mosaico ripercorre le ultime
ore del Senatore Kennedy attraverso le vite di 22 personaggi
che scorrono veloci ed inconsapevoli tra i corridoi, le camere
da letto, le cucine ed i magazzini dell’Hotel Ambassador.
“Volevo dar vita a personaggi che fossero rappresentativi
di un’epoca e che servissero anche ad ampliare la storia”
dice il regista/sceneggiatore/attore Estevez.
Attraverso le storie di questi personaggi, il regista ricostruisce
il ritratto di un’America idealista ed ottimista, capace
ancora di credere che un mondo migliore fosse possibile e
realizzabile, non attraverso “la violenza che semina
violenza, o la repressione che genera ritorsioni” ma
attraverso i valori dell’altruismo e della compassione,
perni centrali della corsa interrotta di Robert Kennedy -
Bobby per amici, collaboratori, sostenitori – alla Presidenza.
Un sogno, l’ennesimo, interrotto dalla follia di un
uomo e che assurge la figura di Bobby a quella di altri martiri
della storia contemporanea dal fratello JFK a Martin Luther
King, da John Lennon a Yitzhak Rabin.
11 storie per un’America generosa –
una giovane ragazza di presta a sposare un ragazzo per evitargli
la chiamata alle armi ed un viaggio senza ritorno in Vietnam
-, melanconica – il portiere d’albergo
che considerando l’Hotel la propria casa ed i suoi dipendenti
la propria famiglia non si rassegna al tempo che passa -,
sognatrice – la cameriera del coffe
shop appena arrivata dall’Ohio con lambizione di diventare
stella del cinema –, razzista –
l’arrogante prepotenza del responsabile food & beverage
dell’hotel nei confronti del personale messicano -,
disillusa – la parabola discendente
della cantante di pianobar Virginia Fallon e dell’estetista
e moglie tradita del direttore d’albergo Miriam -.
La costruzione della pellicola, la sovrabbondanza di personaggi
e storie che si dipanano l’una nell’altra talvolta
incrociandosi, talvolta sfiorandosi solamente, ricorda il
cinema di Robert Altman e dei suoi epigoni come Paul Thomas
Anderson (Magnolia) e Paul Haggis
di recente (Crash). Ma al contrario
del maestro da poco scomparso, lo svolgimento, l’incrocio
e lo sviluppo delle storie è poco fluido, naturale,
ma piuttosto meccanico, a tratto forzato trasmettendo un senso
di artefatto che il valore morale del film, notevole, non
può completamente giustificare o nascondere.
Il Senatore Kennedy è presente nel film solo attraverso
immagini di repertorio ed ideologicamente apre e chiude il
film attraverso due discorsi il primo tenuto in occasione
della morte di Martin Luther King, il secondo tenuto pochi
minuti prima di essere ucciso nella sala da ballo dell’Hotel
Ambassador.
Risultato è che il momento più emozionate e
toccante del film è affidato alle parole e melodie
della canzone di Simon & Garfunkel, 'The Sound of Silence',
sulle immagini documentarie di un America che si stava sgretolando
sotto i colpi delle pallottole in Vietnam e delle violenze
razzistiche mentre l’unico collante, la nuova speranza
per un’America migliore si stava spegnendo al Good Samaritan
Hospital, all’età di soli 42 anni.
[fabio melandri]
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