Marcos,
autista cinquantenne di un generale dell’esercito, rapisce,
con la complicità della moglie, un neonato che muore
accidentalmente. In preda al rimorso, confida l’accaduto
all’inquieta Ana, la giovane figlia del suo capo, che
conduce una doppia vita, prostituendosi per puro piacere. In
questa strana intimità tra i due, nell’accresciuta
confusione, l’autista dovrà fare delle scelte,
spinto da un urgente bisogno di redenzione, di castigo, oppure...?
Il film del messicano Carlos Reygadas (al suo secondo lungometraggio,
dopo Japòn, autoprodotto
con un cast tecnico ed attoriale di principianti, Camera D’or
– Menzione Speciale Festival di Cannes 2002), vanta una
struttura circolare. Percorsa l’intera circonferenza,
si giunge alla scena conclusiva, speculare al “sorprendente”
quadro iniziale ma trasfigurata dal carico di significati, espliciti
e simbolici, risolti e controversi, rastrellati durante il tortuoso
cammino.
All’interno di tale cerchio di contenimento si affastellano
le macro e micro strutture narrative, a loro volta costruite
in tondo, chiuse in sé, inframmezzate dal rituale dell’alzabandiera
militare, sorta di leitmotiv che scandisce il ritmo e separa
simbolicamente i vari segmenti filmici. Il Messico è
una prigione entro cui l’essere umano può muoversi
nei limiti dei tracciati “fatalistici” che caratterizzano
un po’ tutto l’universo latino-americano, e, nella
fattispecie, nella geometria delle forme, dei volumi e delle
iperboli narrative e visive prospettate dal regista, in modo
apparentemente schematico e rigido, in realtà aperte,
nel ricorrente ed ambiguo gioco dei doppi significati, ad una
tensione “morale/mistica” sotterranea, sebbene di
natura puramente laica, molto immaginifica, libera e disturbante.
In ragione di ciò e di una sceneggiatura ricca di contrasti
e simbologie - non sempre di facile decifrazione, sebbene alludano
innegabilmente alla realtà politica, socio-culturale,
antropologica del Messico -, le scene di sesso esplicito, spinto
oltre i limiti della pornografia, non tendono alla mera trasgressione,
né allo scandalo come fine ultimo, bensì - strumento
dell’espressione -, al meta-realismo con cui l’autore
di Battaglia nel cielo tratteggia
il vissuto dei suoi personaggi, in maniera spoglia, cruda, imbarazzante,
ma priva di forzature ed ostentazioni. Vediamo così rappresentati
i corpi obesi, sfatti e ripugnanti di Marcos e di sua moglie,
mentre copulano pateticamente, con tagli di ripresa ed una fotografia
di tipo pittorico (interessante “provocazione” il
frame del Cristo Morto di Antonello da Messina, intervallato
alla sequenza), in una sorta di trasfigurazione pietosa e catartica
di ciò che convenzionalmente si associa alla disarmonia
delle forme; là dove le plastiche nudità della
bella e sensuale Ana contrastano non poco con il (meta)fisico
bolso e rigido di Marcos. L’”Amour Fou”, nel
dicotomico gioco di “Eros e Thanatos”, non si nutre
di pregiudizi. Oltre che accentuare il già di per se
notevole plasticismo di alcune sequenze, anche la musica assolve
il compito di espandere le valenze metafisiche e/o simboliche
che sottendono al degrado morale, spirituale e culturale degli
strati più poveri ed emarginati della popolazione di
Città del Messico. E’ il caso del formidabile concerto
“bachiano”, proveniente dall’autoradio di
Marcos, in forte contrasto con l’ordinario, prosaico e
spento squallore di una stazione di servizio; oppure della Marcia
Processionaria della “Semana Santa” che accompagna
le riprese al ralenty - notevoli per dinamismo -, di una partita
di pallone (il calcio, nuova frontiera della religiosità
alienante e superstiziosa, sorta di alternativa modernista al
culto di “Nostra Signora di Guadalupe”, presso il
cui santuario Marcos si recherà in pellegrinaggio: affinché
si compia il suo destino?).
Al girato dal taglio semidocumentaristico (le ripetute inquadrature
ravvicinate e i totali della città), finanche cineamatoriale,
ma in modo evidentemente “studiato” (le sequenze
iper-realistiche nella stazione metro), si alternano le lunghe
panoramiche di una mdp che stacca sul soggetto per compiere
(poetiche) “divagazioni” di 360 gradi sulla città
convulsa, alienata, estraniante, per poi tornare al punto di
partenza, al nodo centrale dell’intera vicenda rappresentato
dall’essere umano. Oltre a ciò, ed al ricorso alla
soggettiva, altra caratteristica evidente dello stile di Carlos
Reygadas – regista molto abile ed inventivo -, è
rappresentata dal fuoricampo che accende l’immaginazione
dello spettatore cui è dato intuire le scene non visibili,
un’infinità di piccoli-grandi accadimenti, parti
integranti dell’inquadratura, che entrano “nascostamente”
in campo mediante quel suggestivo espediente tecnico-stilistico.
Una molto brava e bella Amapola Mushkadiz, dotata di notevole
carisma e personalità, sicuramente una promessa, caratterizza,
anzi crea, con disinvolta efficacia il suo personaggio, in un
ruolo tutt’altro che semplice. Marcos Hernández
(Marcos) e Berta Ruiz (moglie di costui), entrambi attori non
professionisti - secondo una precisa scelta dell’autore
che predilige l’approccio interpretativo “bressoniano”,
non (sovra)strutturato -, assolvono egregiamente ai loro insoliti
ruoli. Battaglia nel cielo, affascinante
opera seconda - molto applaudita dal pubblico del Festival di
Cannes -, controversa, ambigua, aperta ad una molteplicità
di interpretazioni, regala al fruitore, lasciato libero di immaginare
in proprio, uno spaccato vivido ed originale della realtà
del Messico contemporaneo e della natura umana, con le sue miserie
e le sue capacità di riscatto, oltre i confini geografici
e gli steccati culturali, in un pianeta che diventa sempre più
globale. Carlos Reygadas, autore oramai più che promettente,
è da tenere sotto stretta sorveglianza.
[giuseppe
mariani]
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