Dopo
Amores Perros e 21
Grammi Inarritu torna con un film corale, un quadro
pennellato a più riprese su diverse direttrici, che
si intersecano, si sfiorano, senza mai però sovrapporsi,
andare a coincidere.
Tre (o forse quattro) storie questa volta di laboriosissima
ambientazione e altrettanto complicata decodificazione, in
special modo nel loro presentare tratti unificanti e diversità
sostanziali.
Stars d’eccezione Brad Pitt e Cate Blanchett, coppia
scoppiata in cerca di una quadratura del cerchio, tentativo
che sembra andare a buon fine solo nel momento della più
grande tragedia. E quel Gael Garcia Bernal che funge quasi
da feticcio-portafortuna, e come tale viene impiegato, costretto
in un ruolo che lascia poco spazio al grande carisma comunicativo
dell’attore messicano.
Il disegno di Inarritu sembra, alla terza replica, mostrare
un po’ la corda. Il primo lavoro mostrava quel tono
aggressivo ed asciutto che, in un esordiente, aveva stupito
per coerenza e pulizia d’impianto. Nel secondo venivano
impiegate grandi star (Del Toro, Penn, la Watts) in uno schema
sporco e frammentario e con una produzione da cinema indipendente
di classe.
La babele che descrive il regista nel suo terzo film presenta
due tipi di difficoltà. Il primo narrativo, il secondo
stilistico.
Andando con ordine. Lo script sembra essere scritto “alla
maniera di” Inarritu. E questo, per un regista con una
carriera discretamente corta, pur costellata di successi e
già in possesso di una propria dimensione autoriale,
è preoccupante. La stramba storia di un proiettile
che malauguratamente parte da un fucile di matrice giapponese
e colpisce (a morte?) una turista americana in terra marocchina,
i figli della quale sono nel frattempo rimasti a San Diego
con la tata messicana, sembra tirata un po’ per i capelli.
O meglio. Prese singolarmente le singole ambientazioni, e
i loro toccanti finali, reggono bene l’urto sella scena.
Non si comprende però la volontà a tutti i costi
di intersecarle trovando collegamenti abbastanza pretestuosi,
ma soprattutto non necessari. Non era necessario cioè
collegare una ragnatela di snodi narrativi così fitta
per dare densità e profondità alla pellicola.
La seconda perplessità è sulla differenza dei
registri adottati nella narrazione, adeguando la regia alla
tradizione filmica del paese in cui, di volta in volta, ci
si muove. Il peccato complessivo è dunque quello dell’auto-manierismo,
che, pur conservando intatta una certa forza comunicativa
e una sostanziale solidità d’impianto, priva
il film di gran parte del suo slancio.
Meritato, per altri aspetti, il premio alla regia di Cannes.
Il climax di tensione, per citarne uno, costruito sull’arrivo
del proiettile nel pullman, costruito con un unico piano fisso,
è qualcosa di notevole.
L’indagine, lo scandagliamento del regista sul tema
della mancanza, è d’altra parte una delle frecce
all’arco di Babel.
La mancanza di una civiltà moderna, di un moderno stato
di diritto, nella “parte marocchina”, la mancanza
di affetti propri, di sicurezze, in quella messicana, la mancanza
di rapporto, di intesa, tra i due coniugi, e infine la mancanza
di rapporti sociali al di fuori della propria nicchia, nella
parte giapponese. Tema che è approfondito e sottolineato
dalla sottolineatura dell’ambientazione desertica, che
emerge tanto tra le sabbie del Marocco che nella steppa texana,
come anche fra gli sterili grattacieli di Tokio. In questo
scenario disarmante a pagare sono sempre gli innocenti, inermi
di fronte alla casualità dell’inarrestabile destino.
Un Inarritu che mescola eccessi di sapienza autocelebrativa
a momenti di grande cinema, a livello estetico ma anche d’indagine
umana e psicologica, in un film che sembra più un’opera
di transizione che un significativo passo avanti nel percorso
autoriale di un buon regista. [pietro
salvatori]
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