Babel
id.
Regia
Alejandro Gonzàlez Inarritu
Sceneggiatura
Guillermo Arriaga
Fotografia
Rodrigo Prieto
Montaggio
Stephen Mirrione
Scenografia
Brigitte Broch
Casting
Francine Maisler
Musica
Gustavo Santaolalla
Produzione
Anonymous Content, Zeta Film, Central Films
Interpreti
Brad Pitt, Cate Blanchett, Gael Garcìa Bernal, Koji Yakusho, Adriana Barraza, Rinko Kikuchi, Said Trachani, Boubker Ait El Caid, Elle Fanning
Anno
2006
Genere
drammatico
Nazione
USA
Durata
144'
Distribuzione
01 Distribution
Uscita
27-10-06

Dopo Amores Perros e 21 Grammi Inarritu torna con un film corale, un quadro pennellato a più riprese su diverse direttrici, che si intersecano, si sfiorano, senza mai però sovrapporsi, andare a coincidere.
Tre (o forse quattro) storie questa volta di laboriosissima ambientazione e altrettanto complicata decodificazione, in special modo nel loro presentare tratti unificanti e diversità sostanziali.
Stars d’eccezione Brad Pitt e Cate Blanchett, coppia scoppiata in cerca di una quadratura del cerchio, tentativo che sembra andare a buon fine solo nel momento della più grande tragedia. E quel Gael Garcia Bernal che funge quasi da feticcio-portafortuna, e come tale viene impiegato, costretto in un ruolo che lascia poco spazio al grande carisma comunicativo dell’attore messicano.
Il disegno di Inarritu sembra, alla terza replica, mostrare un po’ la corda. Il primo lavoro mostrava quel tono aggressivo ed asciutto che, in un esordiente, aveva stupito per coerenza e pulizia d’impianto. Nel secondo venivano impiegate grandi star (Del Toro, Penn, la Watts) in uno schema sporco e frammentario e con una produzione da cinema indipendente di classe.
La babele che descrive il regista nel suo terzo film presenta due tipi di difficoltà. Il primo narrativo, il secondo stilistico.
Andando con ordine. Lo script sembra essere scritto “alla maniera di” Inarritu. E questo, per un regista con una carriera discretamente corta, pur costellata di successi e già in possesso di una propria dimensione autoriale, è preoccupante. La stramba storia di un proiettile che malauguratamente parte da un fucile di matrice giapponese e colpisce (a morte?) una turista americana in terra marocchina, i figli della quale sono nel frattempo rimasti a San Diego con la tata messicana, sembra tirata un po’ per i capelli. O meglio. Prese singolarmente le singole ambientazioni, e i loro toccanti finali, reggono bene l’urto sella scena. Non si comprende però la volontà a tutti i costi di intersecarle trovando collegamenti abbastanza pretestuosi, ma soprattutto non necessari. Non era necessario cioè collegare una ragnatela di snodi narrativi così fitta per dare densità e profondità alla pellicola.
La seconda perplessità è sulla differenza dei registri adottati nella narrazione, adeguando la regia alla tradizione filmica del paese in cui, di volta in volta, ci si muove. Il peccato complessivo è dunque quello dell’auto-manierismo, che, pur conservando intatta una certa forza comunicativa e una sostanziale solidità d’impianto, priva il film di gran parte del suo slancio.
Meritato, per altri aspetti, il premio alla regia di Cannes. Il climax di tensione, per citarne uno, costruito sull’arrivo del proiettile nel pullman, costruito con un unico piano fisso, è qualcosa di notevole.
L’indagine, lo scandagliamento del regista sul tema della mancanza, è d’altra parte una delle frecce all’arco di Babel.
La mancanza di una civiltà moderna, di un moderno stato di diritto, nella “parte marocchina”, la mancanza di affetti propri, di sicurezze, in quella messicana, la mancanza di rapporto, di intesa, tra i due coniugi, e infine la mancanza di rapporti sociali al di fuori della propria nicchia, nella parte giapponese. Tema che è approfondito e sottolineato dalla sottolineatura dell’ambientazione desertica, che emerge tanto tra le sabbie del Marocco che nella steppa texana, come anche fra gli sterili grattacieli di Tokio. In questo scenario disarmante a pagare sono sempre gli innocenti, inermi di fronte alla casualità dell’inarrestabile destino.
Un Inarritu che mescola eccessi di sapienza autocelebrativa a momenti di grande cinema, a livello estetico ma anche d’indagine umana e psicologica, in un film che sembra più un’opera di transizione che un significativo passo avanti nel percorso autoriale di un buon regista. [pietro salvatori]

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