Critico l’istituzione della
polizia come strumento di repressione che viene dall’alto
costringendo persone a dire cose che neanche pensano lontanamente.
Lei parla di autoesilio. Nei suoi
film è presente un’umanità che manca
di comprensione verso l’esterno.
Io credo che Babel sia un film sulla compassione,
unica forma per raggiungere quella linea di confine che
esiste all’interno dei nostri cuori. Io ho imparato
a rispettare il prossimo. C’è una parola
che vado sperimentando ed è tolleranza. Ho imparato
a rispettare le diversità linguistiche. Sul set
si parlavano 6/7 lingue differenti, con linguaggi in cui
una stessa parola aveva più e diversi significati.
Apocalisse
irreversibile. Sembra questo il motore de film.
Io non credo nella felicità e tristezza come
momenti assoluti. Nella vita abbiamo il colore grigio.
Concetti e valori sono stati con il tempo estremizzati.
Questo dei film che ho girato è il più allegro
o comunque che trasmette più speranza.
Babel
è un film dalla struttura complessa che unisce
mondi lontani. La nostra vita è legata a quella
degli altri, non siamo soli. Le nostre azioni hanno ripercussioni
che noi non immaginiamo.
In Amore Perros avevo tre storie che si intersecavano
in un unico punto. In 21 grammi invece un’unica
storia era raccontata attraverso tre punti di vista. Qui
abbiamo quattro storie, quattro personaggi che sono fisicamente
lontani tra loro, che mai vengono in contatto direttamente,
ma sono strettamente legati ad un livello emotivo. Sono
fortemente convinto che le decisioni prese in un angolo
del mondo abbiano ripercussioni all’angolo opposto.
Una farfalla si alza a Tokyo ed uno Tsunami si abbatte
su New York.
Come
è stato girare in un paese islamico come il Marocco?
Avete incontrato difficoltà?
Ho percepito una grande spiritualità nei paesi
islamici ed una grande generosità nelle popolazioni
locali. La presenza di elementi radicali in una cultura,
non rende l’intera cultura radicale. Babel non è
un film sulla politica dei politici, ma sulla politica
delle persone. E’ un film che parla di padri e figli,
di mariti e mogli, di barriere che si giustappongono tra
di loro e di come superarle.
Il
titolo biblico ed il tema della compassione farebbero
pensare ad un film profondamente religioso. In realtà
Dio e la religione sono essenzialmente estromessi per
un film tutto sommato laico.
E’ un film su conflitti molto terreni, che colpiscono
persone e non cattolici o mussulmani, americani o giapponesi.
E’ un film su ciò che ci divide e su ciò
che ci unisce, su ciò che ci rende esseri umani.
La religione tende a polarizzare, crea differenze e la
cosa non mi interessava. Ciò che ci unisce non
è la felicità ma ciò che ci addolora.
E’ la miseria che ci unisce in maniera empatica
gli uomini.
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