Sin da
bambino Jake Huard aveva un sogno: entrare a far parte della
prestigiosa Accademia Navale di Annapolis. Un giorno la sua
domanda di ammissione viene accettata e il sogno diventa realtà.
Ma la vita in Accademia è molto più dura di
quanto pensasse. L’impatto con le sue regole ferree,
la disciplina e la competizione degli altri allievi lo faranno
più volte vacillare nel suo intento ma alla fine l’impegno
e la forza di volontà gli permetteranno di superare
ogni ostacolo e diventare Ufficiale della Marina americana.
Sorvolando sulla estrema somiglianza con un cult-movie del
genere, Ufficiale e Gentiluomo,
di cui sembra il non-accreditato (e fiacchissimo) remake (nel
film ci sono il duro comandante di colore, con cui Jake alla
fine disputerà un incontro di boxe!,e addirittura il
compagno di stanza che tenta il suicidio!), Annapolis,
secondo film di un regista taiwanese, Justin Lin, trapiantato
a Los Angeles (il primo è l’inedito Better
Luck Tomorrow e il prossimo, ahimé sì
ce ne sarà un altro, è The
Fast and the Furious: Tokyo Drift), sembra uno di quei
film di propaganda che vengono proiettati nelle scuole per
reclutare giovani innocenti (e ingenui) da spedire al fronte.
Ma andiamo per ordine: Jake lavora col padre in una fabbrica
di navi e, guarda caso, l’Accademia Annapolis si erge
proprio di fronte a questo (detestabile) luogo di lavoro.
Jake non ha futuro. O meglio ce l’ha. Restare per sempre
a saldare bulloni. E già qui è ben chiaro l’intento
di Lin (o chi per lui) di indicare a chi è rivolto
questo film. Non certo agli studenti di Harvard né
tantomeno ai figli di senatori (o di liberi professionisti
in genere). Per chi si chiedesse come mai i soldati che vanno
in guerra non sono mai di estrazione alto-borghese ma sempre
di umili origini si consiglia la visione del controverso documentario
Farenheit 9/11 di un car’uomo
di nome Michael Moore.
Poi Jake ha le fattezze semiperfette di James Franco, giovane
promessa, maimantenuta, del cinema americano nonostante kolossal
come Spiderman e Tristano
e Isotta, credibile come nerd proletario della
suburbia americana quasi quanto la Ferilli nei panni di Dalida
(oh Dio a lei le hanno permesso di interpretare di recente
proprio la grande cantante francese!). Ennesima marionetta
pseudo-machista in cerca di riscatto dallo squallore familiare
(identico tra l’altro a quello del personaggio di Richard
Gere di Ufficiale e Gentiluomo)
e in balìa di un trionfo di clichés da american
dream.
A questo punto lo sceneggiatore Dave Collard, lo stesso di
Out of time, non sa più
cosa inventarsi. Veramente finora non si è inventato
nulla. Tutto già tristemente visto e rivisto. Pensa
bene allora di mettere qua e là qualche scaramuccia
tra Jake e i suoi superiori, un misero flirt con l’unica
ufficiale femmina dell’accademia, un altrettanto misero
confronto col padre che non vuole (chissà perché?)
che entri in accademia e l’inevitabile incontro di boxe
con il “cattivo” di turno.
Due sono le scene che fanno accapponare la pelle: quella in
cui Jake e Cole commentano la morte in guerra di un giovane
di 23 anni sacrificatosi per il proprio Paese (Cole chiede
a Jake: “Perché vuoi entrare in marina?”
E Jake: “Perché voglio servire il mio Paese!”)
e quella finale in cui Cole suggerisce a Jake di seguirlo
nei marines (e il soldato che sta dentro ogni spettatore è
finalmente pronto per l’Iraq!). [marco
catola]