Barrow,
Alaska, il paese più a Nord degli Stati Uniti d’America.
Qui un mese l’anno il sole non albeggia mai, precipitando
la popolazione in 30 giorni di buio perenne. Chi può,
lascia la città, gli altri si preparano ad affrontare
la notte. Ma quest’anno gli ignari abitanti si troveranno
ad affrontare un ostacolo molto più impegnativo di
una tormenta di neve o disturbi del sonno dovuti alla mancanza
di luce. Qualcosa che per anni ha ‘lavorato’ per
far credere agli umani di essere solo un brutto sogno, ma
che sono più reali del vero. Creature della notte,
che agiscono in branco, affamati di carne cruda e sangue.
Hanno una sola regola: non lasciare testimoni del loro passaggio.
Ispirati alla tradizione vampiresca di Dracula e del suo cantore
Bram Stoker, sono annunciati da un novello Renfield, il cui
compito è isolare la città dal resto del mondo:
cani da slitta sgozzati; telefonini satellitari date alla
fiamme; corrente elettrica e telecomunicazioni interrotte.
Tutto è pronto per scatenare l’inferno a Barrow…
30 giorni di buio è tratto
dall’omonimo fumetto di Steve Niles e Ben Templesmith,
composto di soli 3 episodi ma sufficienti per attirare l’attenzione
di Hollywood e di Sam Raimi con la sua Ghost House Pictures.
L’estetica del film, non arrivando alle estremizzazioni
barocche di Sin City, richiama
e ricalca il fumetto: i colori più accesi desautorati
lasciano il posto a neri inchiostro di seppia e bianchi argentati.
Una monocromia che con il procedere del film si perde a favore
del rosso emoglubinico che inizia ad invadere ogni angolo
dello schermo. L’impianto narrativo è basico,
semplice e prevedibile nel suo sviluppo ma assolutamente funzionale
all’obiettivo preposto. 113 minuti di puro entertainment.
Un gruppo di superstiti capitanati dallo sceriffo Eben –
interpretato da un mai così convincente Josh Hartnett
– si ritrova assediato, imprigionato in luoghi a loro
prima familiari ora mai così ostili, da un’orda
di vampiri/licantropi, dall’aspetto glabro, pupille
dilatate, denti cuneiformi ed irregolari come quelli degli
squali e zanne al posto delle mani con cui squarciare gole
e corpi. Iconografia che pesca negli albori del cinema vampiresco
con un velato omaggio al Max Schreck del Nosferatu
di Friedrich Wilhelm Murnau (1922). “Volevo semplicemente
alterare i volti dei vampiri affinché apparissero meno
umani ma al tempo stesso assolutamente reali, - commenta il
regista - Sono abbastanza umani da essere riconoscibili ma
non sono come me e te!”
L’azione giocata sulla sindrome dell’assedio e
su morti “telefonate” è guidata da personaggi
funzionali, contraddittori, deboli nel fisico e nella psiche
che li rende capaci a contempo di azioni tanto eroiche quanto
vili, rendendoli “umani” e “verosimili”,
il che per un film dell’orrore è un piccolo ma
significativo passo in avanti.
Come lo stesso finale, crudele e spiazzante, è il segnale
che qualcosa nel cinema americano si sta muovendo, sotterraneo,
nell’ombra, ma sementi per una nuova idea di cinema
sono state gettate. Ora tocca non rovinare il raccolto…
[fabio
melandri]