Tenutosi
presso l’Auditorium Stensen a Firenze, spazio
spesso adibito a rassegne o proiezioni non prettamente
commerciali, dall’8 al 14 aprile scorso, ha positivamente
registrato una enorme affluenza di pubblico e un seguito
massiccio anche di stampa e critici.
A brillare in mezzo al programma delle serate fiorentine,
la retrospettiva dell’astro nascente Kim Ki-duk
(anche a Milano, Torino, Roma e Bologna), che si è
reso noto al grande pubblico con il Premio Speciale
della Giuria alla 61a Mostra del Cinema di Venezia per
Ferro 3 – La casa vuota.
In rassegna quasi tutti i film del regista sudcoreano,
ben dieci, in lingua originale con sottotitoli. Solo
Kim Ki-duk meriterebbe un capitolo a parte per la complessità
dei suoi lungometraggi, soventemente impregnati del
suo background paramilitare e delle sue esperienze di
pittore e maestro di arti marziali. I suoi film arrivano
allo stomaco, dove esplodono tra il dolore, la tristezza
e la risata, dove nonostante l’intelligenza sia
sempre presente, il cervello non arriva, perché
non fa parte del club e nessuno l’ha invitato.
Spiegare e pensare tutto sarebbe solo un errore madornale.
Ingoiare e deglutire aloni di vita e violenza domestica
invece, fa parte del meccanismo di catarsi dei suoi
protagonisti, un po’ fantasmi, un po’ umani,
ma mai stupidi e scontati esseri.
La rassegna ha inoltre provato a dare un taglio storico
culturale all’entità Corea, con una conferenza
sull’informazione e sulla conoscenza, una tavola
rotonda per dibattere, insieme ad esperti e storici,
la situazione filmica e non di una nazione spezzata
militarmente e territorialmente da quasi sessant’anni,
dopo guerre civili e lotte idealistiche. Cosa che influisce
non poco sulla gestione degli affetti e delle decisioni
riguardo ai processi creativi artistici. Un cinema a
metà che non si piange addosso, ma che anzi fa
del dolore l’arma di una propria rivincita intellettuale.
Non sono mancati altri elementi importanti, come la
presenza di numerosi cortometraggi della Indiestory
Production, appartenenti a registi emergenti e, sicuramente
da non sottovalutare, la proiezione di Wonderful
days di Kim Moon-saeng, primo kolossal d’animazione
coreano, di genere fantascientifico sulla scia del famoso
Akira, ambientato nel futuro
durante la guerra per il controllo dell’energia.
Degni di nota alcuni opere di autori meno conosciuti
sul fronte occidentale. Parliamo della pellicola in
costume Untold Scandal
di Lee Jae-yong, adattato all’epoca della dinastia
Chosun e tratto dal celebre romanzo epistolare 'Les
liasons dangereuses' di Choderlos de Laclos, e dell’originale
Too Young To Die di Park
Jin-pyo, storia vera di una coppia di anziani che si
innamorano secondo la più classica delle leggi
del cuore senza età. Chiude il cerchio Repatriation
di Kim Dong-won che realizza un quasi documentario a
sfondo politico basandosi sulla vita e le peripezie
di due prigionieri comunisti filmati per anni.
Il Korea Film Festival nasce nel 2003 da un’idea
di Riccardo Gelli e Eun Young Chang con lo scopo di
far conoscere la cinematografia coreana, spesso messa
in disparte tra Cina e Giappone. La manifestazione,
sponsorizzata sin dagli esordi da KoreanAir, compagnia
di volo nazionale, e da Samsung, colosso tecnologico
coreano, sembra ben procedere verso la prossima quarta
edizione. Tanti auguri.
Tra rievocazioni storiche, dibattiti, film e folclore,
il festival è stato l’occasione per addentrarsi
nel seducente universo orientale della Corea, nei suoi
costumi e nel suo popolo.
C’è qualcosa dell’oriente che da
sempre ci attrae, che a noi occidentali non riesce vedere,
come gli atomi di una miscela millenaria per la felicità
dell’anima. Giappone, Corea, Cina, ci tramandano
i loro gusti visionari, il sapore della loro arte rinascimentale
dal profondo della storia, un modo diverso di guardare
i contorni delle cose. Ascoltiamo senza presunzione
guardando le illusioni dell’altra parte del mondo.
Non si parla di cibo, non si parla di religione.
Tutto questo è (solo) cinema.
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Kim
Ki-duk Il Cattivo ragazzo |