Come
è nato il progetto?
I
produttori Marc Missonnier e Olivier Delbosc hanno avuto
l'idea di adattare Il Piccolo Nicolas e hanno pensato
che io fossi la persona giusta per farlo, quindi mi hanno
contattato. Non si tratta di un mio progetto, ma quando
me l'hanno proposto mi è sembrato irrinunciabile.
Sono cresciuto con Il Piccolo Nicolas, lo leggevo quando
ero adolescente. È un'opera che mi corrisponde
e mi parla. Ho immediatamente visualizzato come sarebbe
stato il film.
Che legame aveva con Il Piccolo
Nicolas ?
È un personaggio molto universale in cui ognuno
di noi può riconoscersi, mi rimandava alla mia
infanzia, anche se io appartengo a una generazione diversa.
Mi faceva ridere, ma con una certa nostalgia. Mi piaceva
il doppio livello del racconto: un livello per i bambini
e un livello per i più grandi. C'è anche
una certa dose di poesia. Mi sono ritrovato nella scena
in cui Nicolas decide di andarsene di casa di notte con
il suo fagotto. Anch'io avevo progettato di farlo, avevo
persino percorso qualche metro! In seguito quella scena
è diventata un punto di riferimento per me e, quando
mi arrabbiavo, minacciavo di partire con la mia valigia
e riprendevo il discorso del Piccolo Nicolas: «Un
giorno tornerò con un sacco di soldi e ve ne pentirete
tutti!». Era un modo per ridere di me stesso ricollegandomi
a quel momento dell'infanzia.
Come spiega l'universalità
del tandem Goscinny-Sempé?
È difficile spiegare a parole perché un'opera
come quella sia così perfetta e come Sempé
e Goscinny siano riusciti a toccare fino a questo punto
una corda sensibile. È il tipico talento di un
artista, che è tale se è in grado di entrare
in contatto con qualche elemento dell'inconscio collettivo.
Sempé e Goscinny hanno saputo catturare un profumo,
una musica, che scappano dalle pagine del libro e toccano
il lettore. È il mondo dell'infanzia e ognuno si
identifica in questo misto d’ironia e di poesia,
è uno sguardo che è al contempo ad altezza
di bambino e ad altezza di adulto. Quando Spielberg fa
un film con dei bambini, riesce a mettersi alla loro altezza.
Ho guardato molto i suoi film per cercare di capire come
fa, perché non si tratta solo di mettere fisicamente
la macchina da presa ad altezza di bambino, ma anche di
raccontare alla loro altezza, pur essendo un adulto e
rivolgendosi anche agli adulti.
In fase di preparazione,
non è rimasto colpito dalla notevole abbondanza
della materia? Come ha proceduto?
Fino a oggi, dal punto di vista artistico, ho dovuto rendere
conto solo a me stesso e ai produttori e sono stato libero
di fare i film che ho voluto. Per questo film, dovevo
dare delle spiegazioni, avevo una responsabilità
artistica che non è stata sempre facile da gestire.
Fin dalla prima telefonata, ho provato un certo timore
nei confronti del soggetto. Ma se hai paura, non ti puoi
buttare! Non potevo passare il mio tempo a chiedermi che
cosa avrebbero pensato Sempé o Goscinny. Ci vuole
l'incoscienza per lanciarsi! E sperare che il risultato
piaccia.
Io e Grégoire Vigneron, il mio co-sceneggiatore
da sempre, ci siamo immersi nell'opera e anche nella vita
di René Goscinny. Dopo aver parlato con Anne Goscinny,
mi è venuta voglia di capire cosa c'era di René
Goscinny in questo personaggio che era così vicino
a lui. Sapevo che la chiave dell'adattamento era sia nella
suoi racconti sia nella sua vita. Ho quindi cercato di
capire il personaggio René Goscinny. Era un uomo
che cercava il suo posto nella società e contava
di conquistarselo attraverso il riso. Negli anni in cui
faceva il contabile, gli piaceva pensare di essere il
granello di sabbia che avrebbe fatto deragliare tutto.
Provava un indubbio interesse per il disordine e si era
reso conto che la risata poteva essere al tempo stesso
una forma di difesa in una società in cui ci si
sente fuori posto e un modo per inserirsi in questa società.
Sono cose che ho letto tra le righe delle sue biografie
e in cui mi sono identificato. Il ragazzino alla ricerca
del suo posto nella società è quindi diventato
l'asse su cui costruire tutta la storia. Nella prima scena,
domandano a Nicolas cosa vuole fare più avanti
e lui non lo sa. Alla fine, lo scoprirà. A partire
da quest'asse, abbiamo percorso tutta l'opera, l'abbiamo
sezionata racconto per racconto, situazione per situazione,
battuta per battuta. È la stessa impostazione che
avevamo già adottato per Molière, il mio
film precedente. Ci siamo resi conto di avere a disposizione
materiale sufficiente per realizzare dodici ore di film!
Abbiamo quindi dovuto operare delle scelte e non esitare
a eliminare determinate situazioni, anche se ci piacevano
molto, per mantenere la coerenza della storia che volevamo
raccontare. Ne abbiamo comunque mantenute alcune, come
la visita del ministro, che non è essenziale alla
storia, ma è importante per il personaggio di Clotaire.
Abbiamo lavorato diversi mesi per riuscire a sezionare
l'opera e a costruire la storia in modo fluido e coerente,
fino alla prima stesura della sceneggiatura. In un secondo
momento, è intervenuto Alain Chabat. L'ho coinvolto
perché in quel momento avevamo pensato di fare
interpretare a lui il ruolo del padre e, psicologicamente,
avevamo bisogno della sua benedizione. Per Anne Goscinny,
e anche per noi, è forse l'erede spirituale più
vicino a René Goscinny. Anne ritiene che Asterix
e Obelix: Missione Cleopatra sia realmente nello spirito
di suo padre. Avevamo bisogno che Alain leggesse la sceneggiatura,
che l'approvasse e mettesse il suo zampino nel dialoghi,
nelle situazioni, nelle piccole idee.
Parlavamo poco fa del doppio
livello di lettura, uno per i bambini e uno per gli adulti.
Come ha trattato questo aspetto?
Mi piace molto il doppio livello di lettura insito nell'opera
originale. Nei film hollywoodiani dagli anni '30 agli
anni '50, per aggirare la censura, gli sceneggiatori non
avevano altra scelta che far dire l'essenziale nel sottotesto.
A distanza di anni, rivedendo quei film, ci si rende spesso
conto del vero significato di battute in apparenza pulite
e prevedibili. Adoro questa doppia lettura. La censura
ha dato origine a quella scrittura. Con Il Piccolo Nicolas,
la situazione è del tutto diversa. I personaggi
sono sempre diretti e ordinati, ma percepiamo i loro difetti,
le loro frustrazioni, i loro disagi. Quando si racconta
una storia del Piccolo Nicolas a un bambino, non percepisce
assolutamente tutto quello che può trovarci un
adulto. A riprova della ricchezza e dell'intelligenza
dell'opera.
Come ha dato vita ai personaggi?
Di
solito non scrivo i ruoli per gli attori. Scrivo pensando
ai personaggi. In questo caso specifico, la madre di Nicolas
ci poneva delle difficoltà per il suo lato un po'
troppo prevedibile. È una madre che vuole bene
al proprio figlio, che prepara da mangiare, che rimprovera
il marito quando sporca il divano del salotto e che, a
volte, fa bruciare l'arrosto e litiga con il marito proprio
perché è bruciato l'arrosto! Tanto potevamo
rendere il padre più complesso giocando sulla sua
ambizione sociale o sul rapporto che ha con il suo capo,
quando era difficile sfaccettare il personaggio della
madre. Ma dovevamo evitare a tutti i costi che ne venisse
fuori una figura scialba. Un giorno ho chiesto a Grégoire
di immaginare che fosse interpretata da Valérie
Lemercier e questo ci è servito a dar vita al personaggio.
Con quel pizzico di follia che la personalità di
Valérie le infondeva, abbiamo subito percepito
in questo personaggio di madre di famiglia una vera frustrazione.
Casalinga negli anni '50-'60, coltiva anche i suoi sogni:
imparare a guidare, acculturarsi, emanciparsi.
Alcuni personaggi non ci
sono, altri sono più importanti di quanto non lo
siano nei racconti. Come avete operato queste scelte?
Non tutti i personaggi dei racconti potevano comparire
nel film e anche in questo caso abbiamo dovuto tagliare,
scelta che non è stata sempre facile. La maestra
è un personaggio chiave nella serie, perché
un numero enorme di scene è ambientato nella scuola
e la classe è un luogo molto importante. Dovevamo
anche tenere Il Brodo, per via del suo soprannome e perché
in una frase si fa un riferimento esplicito a lui. La
nonna è un personaggio molto divertente, ma non
avevamo abbastanza spazio per farla esistere. In pratica
abbiamo conservato i personaggi a cui abbiamo potuto dare
vita nel contesto della doppia storia che ci eravamo prefissati:
la paura di Nicolas dell'abbandono e la cena con il capo
per mostrare l'ambizione sociale dei genitori.
Il Piccolo Nicolas è
stato creato negli anni '50. Come avete sottolineato il
lato universale e completamente atemporale della serie?
Datare Il Piccolo Nicolas è impossibile! È
stato creato negli anni '50, ma i bambini lo leggono ancora
oggi. Paradossalmente, siamo rimasti colpiti dal fatto
che, già negli anni '50, il mondo descritto ne
Il Piccolo Nicolas non esisteva! Oggi, leggendolo, pensiamo
«rifletteva quegli anni». Ma se lo leggi con
attenzione, ti accorgi che non parla mai di disoccupazione,
di criminalità, che i genitori non divorziano,
che c'è una stabilità sociale e tutto è
in ordine. È una società ideale. Non siamo
sul piano della realtà, né di quella degli
anni '50, né di quella di oggi. Siamo sul piano
della fiaba. Partendo dal principio che Il Piccolo Nicolas
è una fiaba, abbiamo dovuto situarlo nel passato,
in un mondo che non esiste.
Per i bambini di oggi, è una fiaba che potrebbe
svolgersi nel Medio Evo come nello spazio. Abbiamo quindi
avuto una certa libertà nell'ambientazione temporale
e l'abbiamo collocato intorno al 1958, data della creazione
di Mio Zio di Jacques Tati, uno dei riferimenti del film,
e anche data vicina alla creazione del Piccolo Nicolas.
Ma non ha importanza se una delle auto che si vedono è
del 1961. Quello che conta è il profumo del passato,
una realtà nata dall'immaginario collettivo e dall'immagine
di una certa Francia del glorioso trentennio dal 1945
al 1975.
Come ha scelto gli interpreti?
Ovviamente
la prima sfida è stata la scelta dei bambini. Il
Piccolo Nicolas è innanzitutto una storia di bambini.
Quindi abbiamo proceduto a una imponente selezione del
cast e abbiamo visto un numero enorme di bambini, di cui
molti non avevano mai fatto cinema. Per altro, erano i
più interessanti e mi sono reso conto che un bambino
si «corrompe» molto in fretta, o, quanto meno,
capisce molto velocemente le cose. Durante le riprese,
era stupefacente vedere che, nel giro di tre giorni, i
bambini chiedevano loro stessi un ritocco ai capelli o
al trucco! Sapevano perfettamente come intenerire gli
adulti e alcuni di loro si presentavano alle audizioni
facendo sfoggio di assoluta maestria nell'arte della seduzione
e della posa! Da quel momento in poi, ogni freschezza
e ogni innocenza erano perdute. In generale, la scelta
dei bambini protagonisti non è stata difficile.
Ma avevo paura di scoprire se sarebbero stati capaci di
recitare davanti a una macchina da presa, visto che avevo
scelto «dei volti», delle personalità,
scommettendo sul fatto che sarebbero stati realmente a
loro agio sul set. Non avevo mai lavorato con dei bambini
e per me si trattava di un territorio inesplorato. Alla
fine li ho trovati fantastici! Sono dei veri attori.
La somiglianza fisica tra Maxime Godart e Nicolas era
sconvolgente. E anche la sua determinazione a fare l'attore!
A nove anni, ha una visione molto chiara del posto che
vuole avere nella società, di quello che vuole
fare nella vita. Pensavo che non avrebbe avuto paura davanti
alla macchina da presa, considerando il suo carattere
estroverso. E invece è successo il contrario. Il
primo giorno, quando l'enorme braccio di una gru si è
avvicinato a lui per il primo giro di manovella, era pietrificato!
Più ancora che negli altri bambini, in Maxime,
il desiderio e il piacere di recitare erano straordinari.
Non ha mai mostrato il minimo segno di fatica, né
ha mai manifestato l'esigenza di fare una pausa.
Abbiamo scritto il personaggio della madre per Valérie
Lemercier, con l'ansia che potesse rifiutare. Tra l'altro,
quando l'ho contattata, aveva appena finito di girare
sul lunghissimo set di Agathe Cléry e non aveva
molta voglia di iniziare delle nuove riprese. Ho dovuto
convincerla e ci sono riuscito spiegandole in tutta sincerità
perché la sua partecipazione era per me fondamentale.
Ero rimasto colpito da Kad Merad nel film Je vais bien,
ne t’en fais pas dove interpretava alla perfezione
un «tipo normale»! Il successo di Giù
al nord lo ha confermato: gran parte degli spettatori
si erano identificati in lui. Era l'attore giusto per
il padre di Nicolas. È un quadro intermedio che
va in ufficio tutte le mattine, che ha un po' paura del
suo capo e sogna di avere un aumento. Con Kad, ho parlato
a lungo del mio riferimento per il suo personaggio: Jean-Pierre,
il marito in Vita da strega. È un uomo un po' debole,
anche ambizioso, ma si fa sempre dominare dalla moglie.
Bisognava anche dotarlo di fantasia e di una autentica
tenerezza. Lavorando con Grégoire, ci siamo spesso
detti che di fatto in casa la madre ha due figli: il Piccolo
Nicolas e il marito! Kad era perfetto perché ha
ancora molta infanzia dentro di sé.
La maestra è come una seconda mamma per i bambini.
Doveva quindi essere molto dolce e io la immaginavo anche
molto emotiva. Si fa spesso scavalcare dai bambini, che
adora e nei confronti dei quali deve dimostrarsi autorevole,
e anche dal direttore della scuola. Sandrine Kiberlain,
con i suoi grandi occhi azzurri, esprime questa dolcezza.
Ha un talento naturale nel trasmettere le sue emozioni
in modo molto sottile, solo con uno sguardo o con un movimento.
Era l'attrice di cui avevo bisogno per il genere di commedia
che desideravo realizzare.
Ero rimasto molto colpito da François-Xavier Demaison
in teatro e avevo voglia di lavorare con lui. Istintivamente
sentivo che interpretato da lui Il Brodo avrebbe funzionato
bene. Ha lo stesso lato un po' schietto del personaggio,
ma è anche in grado si esercitare l'autorità.
Attori come Daniel Prévost, Michel Galabru, Anémone
o Michel Duchaussoy hanno popolato i film che guardavo
da bambino e avevo il desiderio di lavorare con loro.
Con questi interpreti, al di là del loro talento
e di quanto sono in grado di dare, sono tornato bambino.
Un'altra sfida è che
è anche un film in costume...
In effetti sì, ma non è il primo per me.
Tuttavia l'approccio è diverso da quello che ho
adottato per Molière, un film teatrale dove tutti
gli attori tendevano a far dimenticare proprio l'aspetto
teatrale. Al contrario, nel Piccolo Nicolas tutto doveva
concorrere alla dimensione irrealistica del progetto.
È un film che confessa apertamente di non essere
sul piano della realtà. Siamo in una fiaba. Le
scene, le inquadrature, i costumi, il suono raccontano
una storia molto costruita. Per questo ho voluto girare
in un teatro di posa, avere una casa che avesse il sapore
di uno studio cinematografico, fare un film che assomigliasse
ai film hollywoodiani degli anni '50. In Un americano
a Parigi, sappiamo che siamo in un teatro di posa a Hollywood
e non a Parigi, ma questo fa parte del fascino del film.
Se avessi avuto i mezzi, avrei ricostruito tutte le strade
in studio. Abbiamo cercato di creare un mondo immaginario,
fittizio, totalmente idealizzato, con il profumo del passato,
il passato della nostra infanzia.
Come si è avvicinato
a un progetto di questo tipo? Come ha definito le sue
priorità?
Il
Piccolo Nicolas è un progetto dove la forza, la
minuzia e la precisione dei disegni di Sempé devono
assolutamente essere una fonte di ispirazione per le immagini.
Non si trattava di ricalcarle in modo letterale, ma di
compiere uno sforzo per realizzare un film curato, stilizzato,
elegante, che avrebbe reso lo spirito dei suoi disegni.
Dovevamo anche riprodurre la musicalità della scrittura
di Goscinny, la poesia che scaturisce dal modo di parlare
di Nicolas, con le sue frasi senza punteggiatura. La scenografia,
le inquadrature, i costumi, la messa in scena dovevano
quindi essere molto controllati. Essendo ambientato negli
anni '50, il film doveva anche avere il sapore dei film
di quell'epoca, che io ho guardato più volte. Ho
studiato in modo approfondito i cineasti che sono riusciti
a raccontare le storie ad altezza di bambino: Spielberg,
ma anche La guerra dei bottoni o I quattrocento colpi.
Ma, contrariamente a Truffaut, il nostro intento non era
quello di cogliere l'energia vitale dei bambini. Avevo
un'idea molto precisa della recitazione, coerente con
il film. Ci volevano delle battute molto sensate e molto
dinamiche. Non essendo sul piano della realtà,
i dialoghi sono molto scritti e il modo di recitarli è
molto lavorato. Un lavoro che non doveva sentirsi e che
quindi, per quanto riguarda i bambini, necessitava di
diverse prove di dizione, articolazione e ritmo. Non contavo
tanto sulla loro spontaneità, quanto sulla loro
freschezza. Anche se non abbiamo fatto uno storyboard,
perché secondo me fissa troppo le cose, abbiamo
discusso prima di ogni inquadratura e di ogni campo. È
un lavoro molto più minuzioso del solito, che deve
tuttavia lasciar filtrare la vita. Deve essere sobrio
e rigoroso, pur lasciando una porta aperta.
Come ha creato l'universo
visivo del film?
Alcune scenografie erano ovvie, come la scuola, l'aula,
il cortile e l'interno della casa. Sapevamo che una parte
importante dello spirito del film sarebbe scaturita da
questi ambienti. Non si trattava di riprodurre i disegni
di Sempé, ma di andare incontro allo spirito dei
racconti. Una trasposizione letterale ci sarebbe costata
la nostra anima. Era necessario avere una scenografia
minimalista, pur mantenendo i dettagli: lo spettatore
doveva poter sentire che ogni cosa era al suo posto, ma
non essere distratto da qualcosa di diverso da quello
che noi volevamo mostrargli. Anche in questo caso, mi
sono molto ispirato a Jacques Tati, che ha il senso del
dettaglio, ma mostra solo il dettaglio necessario a fare
esistere la scena.
Mi piace anche la regia di Wes Anderson, con le sue inquadrature
molto fisse, che tuttavia raccontano tutto. Per me era
importante far vivere la storia nella composizione dell'immagine
e nella scenografia. Stranamente, le ambientazioni del
film mi fanno più che altro pensare ad alcune foto
che i miei genitori mi hanno mostrato della loro infanzia
o a un periodo che io non ho mai realmente vissuto.
La presenza di tanti bambini
sul set ha complicato le riprese?
La prima scena è quella della foto di classe: gli
adulti sono completamente scavalcati e calpestati dai
bambini che sostengono di riuscire a controllare. Sul
set è successa esattamente la stessa cosa: i bambini
ci hanno tirato pazzi!
Ogni giorno, al mattino tutto cominciava bene, poi, man
mano che le ore passavano, la situazione degenerava! Ci
mettevamo le mani nei capelli per cercare di mantenere
un clima serio, ma era del tutto inutile! La sera, tornavamo
a casa esausti, ma ogni mattina eravamo comunque molto
felici di rivederli. Fa parte della natura dei bambini.
Quando qualcuno mi chiede com'è lavorare con dei
bambini, otto nel caso specifico, rispondo che basta immaginare
di essere un padre single che deve gestire otto figli
il giorno della partenza per le vacanze! Ma sono stati
fantastici e questo paragone con il padre single non è
casuale: sul set erano tutti figli miei e li adoro!
Come sono stati i rapporti
tra gli attori giovani e gli attori adulti?
È
andato tutto molto bene, sia per gli uni che per gli altri.
All'inizio, ovviamente, i bambini erano un po' in soggezione,
ma hanno perso in fretta ogni inibizione. Dal canto loro,
gli adulti si sono ben presto resi conto che i bambini
interpretavano molto bene i loro ruoli. In generale, la
direzione degli attori è stata omogenea e parlavo
con i bambini allo stesso modo che con gli adulti. Non
era la situazione in cui un bambino arriva sul set e il
regista cerca di preservare la sua spontaneità,
nascondendogli la macchina da presa. Noi avevamo a che
fare con dei giovani attori mescolati in un gruppo.
Ci sono state delle scene che vi hanno dato un'emozione
particolare?
In
questo film, molto più che nei miei due film precedenti,
sono rimasto colpito nel vedere che alcune scene corrispondevano
esattamente a come io le avevo immaginate. Lavorando a
questo film, sono rimasto molto sorpreso nel trovarmi
davanti le immagini precise che avevo in mente scrivendo
la sceneggiatura. È stata una sensazione piuttosto
strana.
Il legame del film con l'infanzia
crea in lei un affetto particolare?
Durante
le riprese, sono immerso nella sequenza. So qual è
il suo significato, come si iscrive nel film e il mio
approccio è tecnico. Ma, mentre la mia parte cosciente
è impegnata a gestire gli aspetti tecnici della
scena, il mio inconscio lavora a pieno ritmo! Come per
i miei due film precedenti, quando oggi vedo il film terminato,
resto stupefatto nel trovarvi la mia impronta ovunque,
molto più di quanto pensassi. Sono partito volendo
adattare Il Piccolo Nicolas e il risultato finale è
indubbiamente Il Piccolo Nicolas, è indubbiamente
René Goscinny, ma in modo curioso riflette anche
me stesso!
Questo film le ha insegnato
qualcosa di se stesso in quanto regista?
Il film mi ha dato l'opportunità di constatare
che so lavorare con i bambini, che ne sono capace, o quanto
meno che riesco a sopravvivere e che mi dà un autentico
piacere. Con loro non ho mai avuto problemi di giochi
di forza o di potere. Se un bambino non riesce a interpretare
una scena, non è perché si fa delle domande
sulle motivazioni del personaggio o perché mette
in discussione l'autorità del regista. È
perché non ci arriva e bisogna trovare un trucco,
un'astuzia per sbloccarlo. Se perde la concentrazione,
è perché è un bambino e non si può
pretendere che resti concentrato per sei ore di fila.
Ha una scena preferita, che
la tocca in modo particolare?
Curiosamene
c'è una scena che mi piace molto, fin da quando
l'ho scritta. Mi piace perché è senza dialoghi.
Si ispira a una minuscola frase nel Piccolo Nicolas, dove
Nicolas dice che è triste, che suo padre ha storto
il naso e lui non ha potuto continuare a tenere il broncio.
Me la sono subito segnata, dicendomi che doveva diventare
il punto centrale di una scena importante per il film
e per me. Probabilmente perché scrivo molti dialoghi,
quando mi capita di scrivere una scena senza dialoghi,
provo un senso di realizzazione. Non so spiegare perché,
ma quella scena mi tocca profondamente. Senza dubbio trova
un eco nella mia infanzia, nei miei rapporti con mio padre
e, probabilmente, anche con mio figlio.
Cosa la soddisfa di più
di questa esperienza?
Ha
molti aspetti positivi. A titolo personale, ho l'impressione
che mi diventi sempre più facile raccontare. Non
so se dipenda dal fatto che capisco meglio quello che
voglio o dal fatto che faccio sempre meno fatica a ottenerlo,
ma mi sento più sereno. Ho l'impressione che ci
sia più sintonia tra quello che sento e quello
che faccio. Mi pongo meno domande, ho meno ansie. Con
questo non voglio dire che i due film precedenti siano
stati una sofferenza, ma ho la sensazione di riuscire
a semplificare, nel senso positivo del termine. Per esempio,
ho meno bisogno di fare delle riprese per rassicurarmi.
Tendo a essere più naturale.
Cosa pensa di offrire al
pubblico con il suo film?
Un
ritorno all'infanzia, spero, una boccata d'infanzia. A
prescindere dal periodo in cui è cresciuto, spero
che ognuno avrà la sensazione di rituffarsi nella
sua infanzia e di ritrovarvi l'innocenza, l'ingenuità
e l'entusiasmo. Il film permetterà anche a persone
di generazioni diverse di confrontarsi sulla propria infanzia.
Un nonno potrà andare a vedere il film con il suo
nipotino e provare le sue stesse emozioni!
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