Come è nato il progetto?
I produttori Marc Missonnier e Olivier Delbosc hanno avuto l'idea di adattare Il Piccolo Nicolas e hanno pensato che io fossi la persona giusta per farlo, quindi mi hanno contattato. Non si tratta di un mio progetto, ma quando me l'hanno proposto mi è sembrato irrinunciabile. Sono cresciuto con Il Piccolo Nicolas, lo leggevo quando ero adolescente. È un'opera che mi corrisponde e mi parla. Ho immediatamente visualizzato come sarebbe stato il film.

Che legame aveva con Il Piccolo Nicolas ?
È un personaggio molto universale in cui ognuno di noi può riconoscersi, mi rimandava alla mia infanzia, anche se io appartengo a una generazione diversa. Mi faceva ridere, ma con una certa nostalgia. Mi piaceva il doppio livello del racconto: un livello per i bambini e un livello per i più grandi. C'è anche una certa dose di poesia. Mi sono ritrovato nella scena in cui Nicolas decide di andarsene di casa di notte con il suo fagotto. Anch'io avevo progettato di farlo, avevo persino percorso qualche metro! In seguito quella scena è diventata un punto di riferimento per me e, quando mi arrabbiavo, minacciavo di partire con la mia valigia e riprendevo il discorso del Piccolo Nicolas: «Un giorno tornerò con un sacco di soldi e ve ne pentirete tutti!». Era un modo per ridere di me stesso ricollegandomi a quel momento dell'infanzia.

Come spiega l'universalità del tandem Goscinny-Sempé?
È difficile spiegare a parole perché un'opera come quella sia così perfetta e come Sempé e Goscinny siano riusciti a toccare fino a questo punto una corda sensibile. È il tipico talento di un artista, che è tale se è in grado di entrare in contatto con qualche elemento dell'inconscio collettivo. Sempé e Goscinny hanno saputo catturare un profumo, una musica, che scappano dalle pagine del libro e toccano il lettore. È il mondo dell'infanzia e ognuno si identifica in questo misto d’ironia e di poesia, è uno sguardo che è al contempo ad altezza di bambino e ad altezza di adulto. Quando Spielberg fa un film con dei bambini, riesce a mettersi alla loro altezza. Ho guardato molto i suoi film per cercare di capire come fa, perché non si tratta solo di mettere fisicamente la macchina da presa ad altezza di bambino, ma anche di raccontare alla loro altezza, pur essendo un adulto e rivolgendosi anche agli adulti.

In fase di preparazione, non è rimasto colpito dalla notevole abbondanza della materia? Come ha proceduto?
Fino a oggi, dal punto di vista artistico, ho dovuto rendere conto solo a me stesso e ai produttori e sono stato libero di fare i film che ho voluto. Per questo film, dovevo dare delle spiegazioni, avevo una responsabilità artistica che non è stata sempre facile da gestire. Fin dalla prima telefonata, ho provato un certo timore nei confronti del soggetto. Ma se hai paura, non ti puoi buttare! Non potevo passare il mio tempo a chiedermi che cosa avrebbero pensato Sempé o Goscinny. Ci vuole l'incoscienza per lanciarsi! E sperare che il risultato piaccia.
Io e Grégoire Vigneron, il mio co-sceneggiatore da sempre, ci siamo immersi nell'opera e anche nella vita di René Goscinny. Dopo aver parlato con Anne Goscinny, mi è venuta voglia di capire cosa c'era di René Goscinny in questo personaggio che era così vicino a lui. Sapevo che la chiave dell'adattamento era sia nella suoi racconti sia nella sua vita. Ho quindi cercato di capire il personaggio René Goscinny. Era un uomo che cercava il suo posto nella società e contava di conquistarselo attraverso il riso. Negli anni in cui faceva il contabile, gli piaceva pensare di essere il granello di sabbia che avrebbe fatto deragliare tutto. Provava un indubbio interesse per il disordine e si era reso conto che la risata poteva essere al tempo stesso una forma di difesa in una società in cui ci si sente fuori posto e un modo per inserirsi in questa società. Sono cose che ho letto tra le righe delle sue biografie e in cui mi sono identificato. Il ragazzino alla ricerca del suo posto nella società è quindi diventato l'asse su cui costruire tutta la storia. Nella prima scena, domandano a Nicolas cosa vuole fare più avanti e lui non lo sa. Alla fine, lo scoprirà. A partire da quest'asse, abbiamo percorso tutta l'opera, l'abbiamo sezionata racconto per racconto, situazione per situazione, battuta per battuta. È la stessa impostazione che avevamo già adottato per Molière, il mio film precedente. Ci siamo resi conto di avere a disposizione materiale sufficiente per realizzare dodici ore di film! Abbiamo quindi dovuto operare delle scelte e non esitare a eliminare determinate situazioni, anche se ci piacevano molto, per mantenere la coerenza della storia che volevamo raccontare. Ne abbiamo comunque mantenute alcune, come la visita del ministro, che non è essenziale alla storia, ma è importante per il personaggio di Clotaire.
Abbiamo lavorato diversi mesi per riuscire a sezionare l'opera e a costruire la storia in modo fluido e coerente, fino alla prima stesura della sceneggiatura. In un secondo momento, è intervenuto Alain Chabat. L'ho coinvolto perché in quel momento avevamo pensato di fare interpretare a lui il ruolo del padre e, psicologicamente, avevamo bisogno della sua benedizione. Per Anne Goscinny, e anche per noi, è forse l'erede spirituale più vicino a René Goscinny. Anne ritiene che Asterix e Obelix: Missione Cleopatra sia realmente nello spirito di suo padre. Avevamo bisogno che Alain leggesse la sceneggiatura, che l'approvasse e mettesse il suo zampino nel dialoghi, nelle situazioni, nelle piccole idee.

Parlavamo poco fa del doppio livello di lettura, uno per i bambini e uno per gli adulti. Come ha trattato questo aspetto?
Mi piace molto il doppio livello di lettura insito nell'opera originale. Nei film hollywoodiani dagli anni '30 agli anni '50, per aggirare la censura, gli sceneggiatori non avevano altra scelta che far dire l'essenziale nel sottotesto. A distanza di anni, rivedendo quei film, ci si rende spesso conto del vero significato di battute in apparenza pulite e prevedibili. Adoro questa doppia lettura. La censura ha dato origine a quella scrittura. Con Il Piccolo Nicolas, la situazione è del tutto diversa. I personaggi sono sempre diretti e ordinati, ma percepiamo i loro difetti, le loro frustrazioni, i loro disagi. Quando si racconta una storia del Piccolo Nicolas a un bambino, non percepisce assolutamente tutto quello che può trovarci un adulto. A riprova della ricchezza e dell'intelligenza dell'opera.

Come ha dato vita ai personaggi?
Di solito non scrivo i ruoli per gli attori. Scrivo pensando ai personaggi. In questo caso specifico, la madre di Nicolas ci poneva delle difficoltà per il suo lato un po' troppo prevedibile. È una madre che vuole bene al proprio figlio, che prepara da mangiare, che rimprovera il marito quando sporca il divano del salotto e che, a volte, fa bruciare l'arrosto e litiga con il marito proprio perché è bruciato l'arrosto! Tanto potevamo rendere il padre più complesso giocando sulla sua ambizione sociale o sul rapporto che ha con il suo capo, quando era difficile sfaccettare il personaggio della madre. Ma dovevamo evitare a tutti i costi che ne venisse fuori una figura scialba. Un giorno ho chiesto a Grégoire di immaginare che fosse interpretata da Valérie Lemercier e questo ci è servito a dar vita al personaggio. Con quel pizzico di follia che la personalità di Valérie le infondeva, abbiamo subito percepito in questo personaggio di madre di famiglia una vera frustrazione. Casalinga negli anni '50-'60, coltiva anche i suoi sogni: imparare a guidare, acculturarsi, emanciparsi.

Alcuni personaggi non ci sono, altri sono più importanti di quanto non lo siano nei racconti. Come avete operato queste scelte?
Non tutti i personaggi dei racconti potevano comparire nel film e anche in questo caso abbiamo dovuto tagliare, scelta che non è stata sempre facile. La maestra è un personaggio chiave nella serie, perché un numero enorme di scene è ambientato nella scuola e la classe è un luogo molto importante. Dovevamo anche tenere Il Brodo, per via del suo soprannome e perché in una frase si fa un riferimento esplicito a lui. La nonna è un personaggio molto divertente, ma non avevamo abbastanza spazio per farla esistere. In pratica abbiamo conservato i personaggi a cui abbiamo potuto dare vita nel contesto della doppia storia che ci eravamo prefissati: la paura di Nicolas dell'abbandono e la cena con il capo per mostrare l'ambizione sociale dei genitori.

Il Piccolo Nicolas è stato creato negli anni '50. Come avete sottolineato il lato universale e completamente atemporale della serie?
Datare Il Piccolo Nicolas è impossibile! È stato creato negli anni '50, ma i bambini lo leggono ancora oggi. Paradossalmente, siamo rimasti colpiti dal fatto che, già negli anni '50, il mondo descritto ne Il Piccolo Nicolas non esisteva! Oggi, leggendolo, pensiamo «rifletteva quegli anni». Ma se lo leggi con attenzione, ti accorgi che non parla mai di disoccupazione, di criminalità, che i genitori non divorziano, che c'è una stabilità sociale e tutto è in ordine. È una società ideale. Non siamo sul piano della realtà, né di quella degli anni '50, né di quella di oggi. Siamo sul piano della fiaba. Partendo dal principio che Il Piccolo Nicolas è una fiaba, abbiamo dovuto situarlo nel passato, in un mondo che non esiste.
Per i bambini di oggi, è una fiaba che potrebbe svolgersi nel Medio Evo come nello spazio. Abbiamo quindi avuto una certa libertà nell'ambientazione temporale e l'abbiamo collocato intorno al 1958, data della creazione di Mio Zio di Jacques Tati, uno dei riferimenti del film, e anche data vicina alla creazione del Piccolo Nicolas. Ma non ha importanza se una delle auto che si vedono è del 1961. Quello che conta è il profumo del passato, una realtà nata dall'immaginario collettivo e dall'immagine di una certa Francia del glorioso trentennio dal 1945 al 1975.

Come ha scelto gli interpreti?
Ovviamente la prima sfida è stata la scelta dei bambini. Il Piccolo Nicolas è innanzitutto una storia di bambini. Quindi abbiamo proceduto a una imponente selezione del cast e abbiamo visto un numero enorme di bambini, di cui molti non avevano mai fatto cinema. Per altro, erano i più interessanti e mi sono reso conto che un bambino si «corrompe» molto in fretta, o, quanto meno, capisce molto velocemente le cose. Durante le riprese, era stupefacente vedere che, nel giro di tre giorni, i bambini chiedevano loro stessi un ritocco ai capelli o al trucco! Sapevano perfettamente come intenerire gli adulti e alcuni di loro si presentavano alle audizioni facendo sfoggio di assoluta maestria nell'arte della seduzione e della posa! Da quel momento in poi, ogni freschezza e ogni innocenza erano perdute. In generale, la scelta dei bambini protagonisti non è stata difficile. Ma avevo paura di scoprire se sarebbero stati capaci di recitare davanti a una macchina da presa, visto che avevo scelto «dei volti», delle personalità, scommettendo sul fatto che sarebbero stati realmente a loro agio sul set. Non avevo mai lavorato con dei bambini e per me si trattava di un territorio inesplorato. Alla fine li ho trovati fantastici! Sono dei veri attori.
La somiglianza fisica tra Maxime Godart e Nicolas era sconvolgente. E anche la sua determinazione a fare l'attore! A nove anni, ha una visione molto chiara del posto che vuole avere nella società, di quello che vuole fare nella vita. Pensavo che non avrebbe avuto paura davanti alla macchina da presa, considerando il suo carattere estroverso. E invece è successo il contrario. Il primo giorno, quando l'enorme braccio di una gru si è avvicinato a lui per il primo giro di manovella, era pietrificato!
Più ancora che negli altri bambini, in Maxime, il desiderio e il piacere di recitare erano straordinari. Non ha mai mostrato il minimo segno di fatica, né ha mai manifestato l'esigenza di fare una pausa.
Abbiamo scritto il personaggio della madre per Valérie Lemercier, con l'ansia che potesse rifiutare. Tra l'altro, quando l'ho contattata, aveva appena finito di girare sul lunghissimo set di Agathe Cléry e non aveva molta voglia di iniziare delle nuove riprese. Ho dovuto convincerla e ci sono riuscito spiegandole in tutta sincerità perché la sua partecipazione era per me fondamentale.
Ero rimasto colpito da Kad Merad nel film Je vais bien, ne t’en fais pas dove interpretava alla perfezione un «tipo normale»! Il successo di Giù al nord lo ha confermato: gran parte degli spettatori si erano identificati in lui. Era l'attore giusto per il padre di Nicolas. È un quadro intermedio che va in ufficio tutte le mattine, che ha un po' paura del suo capo e sogna di avere un aumento. Con Kad, ho parlato a lungo del mio riferimento per il suo personaggio: Jean-Pierre, il marito in Vita da strega. È un uomo un po' debole, anche ambizioso, ma si fa sempre dominare dalla moglie. Bisognava anche dotarlo di fantasia e di una autentica tenerezza. Lavorando con Grégoire, ci siamo spesso detti che di fatto in casa la madre ha due figli: il Piccolo Nicolas e il marito! Kad era perfetto perché ha ancora molta infanzia dentro di sé.
La maestra è come una seconda mamma per i bambini. Doveva quindi essere molto dolce e io la immaginavo anche molto emotiva. Si fa spesso scavalcare dai bambini, che adora e nei confronti dei quali deve dimostrarsi autorevole, e anche dal direttore della scuola. Sandrine Kiberlain, con i suoi grandi occhi azzurri, esprime questa dolcezza. Ha un talento naturale nel trasmettere le sue emozioni in modo molto sottile, solo con uno sguardo o con un movimento. Era l'attrice di cui avevo bisogno per il genere di commedia che desideravo realizzare.
Ero rimasto molto colpito da François-Xavier Demaison in teatro e avevo voglia di lavorare con lui. Istintivamente sentivo che interpretato da lui Il Brodo avrebbe funzionato bene. Ha lo stesso lato un po' schietto del personaggio, ma è anche in grado si esercitare l'autorità.
Attori come Daniel Prévost, Michel Galabru, Anémone o Michel Duchaussoy hanno popolato i film che guardavo da bambino e avevo il desiderio di lavorare con loro. Con questi interpreti, al di là del loro talento e di quanto sono in grado di dare, sono tornato bambino.

Un'altra sfida è che è anche un film in costume...
In effetti sì, ma non è il primo per me. Tuttavia l'approccio è diverso da quello che ho adottato per Molière, un film teatrale dove tutti gli attori tendevano a far dimenticare proprio l'aspetto teatrale. Al contrario, nel Piccolo Nicolas tutto doveva concorrere alla dimensione irrealistica del progetto. È un film che confessa apertamente di non essere sul piano della realtà. Siamo in una fiaba. Le scene, le inquadrature, i costumi, il suono raccontano una storia molto costruita. Per questo ho voluto girare in un teatro di posa, avere una casa che avesse il sapore di uno studio cinematografico, fare un film che assomigliasse ai film hollywoodiani degli anni '50. In Un americano a Parigi, sappiamo che siamo in un teatro di posa a Hollywood e non a Parigi, ma questo fa parte del fascino del film. Se avessi avuto i mezzi, avrei ricostruito tutte le strade in studio. Abbiamo cercato di creare un mondo immaginario, fittizio, totalmente idealizzato, con il profumo del passato, il passato della nostra infanzia.

Come si è avvicinato a un progetto di questo tipo? Come ha definito le sue priorità?
Il Piccolo Nicolas è un progetto dove la forza, la minuzia e la precisione dei disegni di Sempé devono assolutamente essere una fonte di ispirazione per le immagini. Non si trattava di ricalcarle in modo letterale, ma di compiere uno sforzo per realizzare un film curato, stilizzato, elegante, che avrebbe reso lo spirito dei suoi disegni.
Dovevamo anche riprodurre la musicalità della scrittura di Goscinny, la poesia che scaturisce dal modo di parlare di Nicolas, con le sue frasi senza punteggiatura. La scenografia, le inquadrature, i costumi, la messa in scena dovevano quindi essere molto controllati. Essendo ambientato negli anni '50, il film doveva anche avere il sapore dei film di quell'epoca, che io ho guardato più volte. Ho studiato in modo approfondito i cineasti che sono riusciti a raccontare le storie ad altezza di bambino: Spielberg, ma anche La guerra dei bottoni o I quattrocento colpi. Ma, contrariamente a Truffaut, il nostro intento non era quello di cogliere l'energia vitale dei bambini. Avevo un'idea molto precisa della recitazione, coerente con il film. Ci volevano delle battute molto sensate e molto dinamiche. Non essendo sul piano della realtà, i dialoghi sono molto scritti e il modo di recitarli è molto lavorato. Un lavoro che non doveva sentirsi e che quindi, per quanto riguarda i bambini, necessitava di diverse prove di dizione, articolazione e ritmo. Non contavo tanto sulla loro spontaneità, quanto sulla loro freschezza. Anche se non abbiamo fatto uno storyboard, perché secondo me fissa troppo le cose, abbiamo discusso prima di ogni inquadratura e di ogni campo. È un lavoro molto più minuzioso del solito, che deve tuttavia lasciar filtrare la vita. Deve essere sobrio e rigoroso, pur lasciando una porta aperta.

Come ha creato l'universo visivo del film?
Alcune scenografie erano ovvie, come la scuola, l'aula, il cortile e l'interno della casa. Sapevamo che una parte importante dello spirito del film sarebbe scaturita da questi ambienti. Non si trattava di riprodurre i disegni di Sempé, ma di andare incontro allo spirito dei racconti. Una trasposizione letterale ci sarebbe costata la nostra anima. Era necessario avere una scenografia minimalista, pur mantenendo i dettagli: lo spettatore doveva poter sentire che ogni cosa era al suo posto, ma non essere distratto da qualcosa di diverso da quello che noi volevamo mostrargli. Anche in questo caso, mi sono molto ispirato a Jacques Tati, che ha il senso del dettaglio, ma mostra solo il dettaglio necessario a fare esistere la scena.
Mi piace anche la regia di Wes Anderson, con le sue inquadrature molto fisse, che tuttavia raccontano tutto. Per me era importante far vivere la storia nella composizione dell'immagine e nella scenografia. Stranamente, le ambientazioni del film mi fanno più che altro pensare ad alcune foto che i miei genitori mi hanno mostrato della loro infanzia o a un periodo che io non ho mai realmente vissuto.

La presenza di tanti bambini sul set ha complicato le riprese?
La prima scena è quella della foto di classe: gli adulti sono completamente scavalcati e calpestati dai bambini che sostengono di riuscire a controllare. Sul set è successa esattamente la stessa cosa: i bambini ci hanno tirato pazzi!
Ogni giorno, al mattino tutto cominciava bene, poi, man mano che le ore passavano, la situazione degenerava! Ci mettevamo le mani nei capelli per cercare di mantenere un clima serio, ma era del tutto inutile! La sera, tornavamo a casa esausti, ma ogni mattina eravamo comunque molto felici di rivederli. Fa parte della natura dei bambini. Quando qualcuno mi chiede com'è lavorare con dei bambini, otto nel caso specifico, rispondo che basta immaginare di essere un padre single che deve gestire otto figli il giorno della partenza per le vacanze! Ma sono stati fantastici e questo paragone con il padre single non è casuale: sul set erano tutti figli miei e li adoro!

Come sono stati i rapporti tra gli attori giovani e gli attori adulti?
È andato tutto molto bene, sia per gli uni che per gli altri. All'inizio, ovviamente, i bambini erano un po' in soggezione, ma hanno perso in fretta ogni inibizione. Dal canto loro, gli adulti si sono ben presto resi conto che i bambini interpretavano molto bene i loro ruoli. In generale, la direzione degli attori è stata omogenea e parlavo con i bambini allo stesso modo che con gli adulti. Non era la situazione in cui un bambino arriva sul set e il regista cerca di preservare la sua spontaneità, nascondendogli la macchina da presa. Noi avevamo a che fare con dei giovani attori mescolati in un gruppo.

Ci sono state delle scene che vi hanno dato un'emozione particolare?
In questo film, molto più che nei miei due film precedenti, sono rimasto colpito nel vedere che alcune scene corrispondevano esattamente a come io le avevo immaginate. Lavorando a questo film, sono rimasto molto sorpreso nel trovarmi davanti le immagini precise che avevo in mente scrivendo la sceneggiatura. È stata una sensazione piuttosto strana.

Il legame del film con l'infanzia crea in lei un affetto particolare?
Durante le riprese, sono immerso nella sequenza. So qual è il suo significato, come si iscrive nel film e il mio approccio è tecnico. Ma, mentre la mia parte cosciente è impegnata a gestire gli aspetti tecnici della scena, il mio inconscio lavora a pieno ritmo! Come per i miei due film precedenti, quando oggi vedo il film terminato, resto stupefatto nel trovarvi la mia impronta ovunque, molto più di quanto pensassi. Sono partito volendo adattare Il Piccolo Nicolas e il risultato finale è indubbiamente Il Piccolo Nicolas, è indubbiamente René Goscinny, ma in modo curioso riflette anche me stesso!

Questo film le ha insegnato qualcosa di se stesso in quanto regista?
Il film mi ha dato l'opportunità di constatare che so lavorare con i bambini, che ne sono capace, o quanto meno che riesco a sopravvivere e che mi dà un autentico piacere. Con loro non ho mai avuto problemi di giochi di forza o di potere. Se un bambino non riesce a interpretare una scena, non è perché si fa delle domande sulle motivazioni del personaggio o perché mette in discussione l'autorità del regista. È perché non ci arriva e bisogna trovare un trucco, un'astuzia per sbloccarlo. Se perde la concentrazione, è perché è un bambino e non si può pretendere che resti concentrato per sei ore di fila.

Ha una scena preferita, che la tocca in modo particolare?
Curiosamene c'è una scena che mi piace molto, fin da quando l'ho scritta. Mi piace perché è senza dialoghi. Si ispira a una minuscola frase nel Piccolo Nicolas, dove Nicolas dice che è triste, che suo padre ha storto il naso e lui non ha potuto continuare a tenere il broncio. Me la sono subito segnata, dicendomi che doveva diventare il punto centrale di una scena importante per il film e per me. Probabilmente perché scrivo molti dialoghi, quando mi capita di scrivere una scena senza dialoghi, provo un senso di realizzazione. Non so spiegare perché, ma quella scena mi tocca profondamente. Senza dubbio trova un eco nella mia infanzia, nei miei rapporti con mio padre e, probabilmente, anche con mio figlio.

Cosa la soddisfa di più di questa esperienza?
Ha molti aspetti positivi. A titolo personale, ho l'impressione che mi diventi sempre più facile raccontare. Non so se dipenda dal fatto che capisco meglio quello che voglio o dal fatto che faccio sempre meno fatica a ottenerlo, ma mi sento più sereno. Ho l'impressione che ci sia più sintonia tra quello che sento e quello che faccio. Mi pongo meno domande, ho meno ansie. Con questo non voglio dire che i due film precedenti siano stati una sofferenza, ma ho la sensazione di riuscire a semplificare, nel senso positivo del termine. Per esempio, ho meno bisogno di fare delle riprese per rassicurarmi. Tendo a essere più naturale.

Cosa pensa di offrire al pubblico con il suo film?
Un ritorno all'infanzia, spero, una boccata d'infanzia. A prescindere dal periodo in cui è cresciuto, spero che ognuno avrà la sensazione di rituffarsi nella sua infanzia e di ritrovarvi l'innocenza, l'ingenuità e l'entusiasmo. Il film permetterà anche a persone di generazioni diverse di confrontarsi sulla propria infanzia. Un nonno potrà andare a vedere il film con il suo nipotino e provare le sue stesse emozioni!

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